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Rubrica Storie di letti
I dannati della storia: i sardi a Salò
(Pietro Giuseppe Serra)
Quando si parla di Rsi, cioè della Repubblica sociale italiana, si percorre una strada irta di ostacoli: da una parte bisogna mettere nel conto il confronto-scontro con tutti coloro i quali vorrebbero cancellare anche solo il ricordo dei seicento giorni di Salò, dall’altra ci si deve, invece, sforzare di dare una lettura non ideologica di quegli eventi. A quest’ultimo risultato sarebbe probabilmente giunto Renzo De Felice, ma la prematura morte del grande storico reatino, avvenuta nel 1996, ha momentaneamente interrotto un dibattito storiografico molto ampio e coinvolgente, iniziato peraltro nel 1992 a seguito del saggio di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della resistenza (Bollati Boringhieri).
A tredici anni dalla morte di De Felice, comunque, le cose sono cambiate; e qui segnaliamo, tra gli altri, almeno due importanti ricerche: quella di Luigi Ganapini e di Roberto Chiarini, che affrontano il problema senza la paura di rischiare l’accusa di volere rivalutare la Repubblica sociale italiana. Il saggio di Ganapini (La repubblica delle camicie nere,Garzanti, 1999), pone sul piatto almeno un’importante questione: l’impossibilità di cancellare dalla storia d’Italia il periodo saloino il quale, se anche non può costituire una memoria condivisa, non solo non può essere isolato nella coscienza del paese ma deve essere inserito all’interno di una ricostruzione storica che valuti i motivi per cui molti ragazzi hanno creduto e sono morti durante il crepuscolo di Mussolini. Come già detto, è sicuramente di fondamentale importanza anche il recentissimo saggio di Roberto Chiarini, L’ultimo fascismo (Marsilio, 2009), nel quale lo storico chiede che non venga tenuto “in piedi lo steccato contro i vinti” e che la guerra civile venga finalmente affrontata non in chiave polemica, ma che sia il frutto di riflessioni aliene da intendimenti di pedagogia politica. Non capire le ragioni di chi si schierò per il fascismo, per Chiarini, ha avuto come effetto “l’auto-assoluzione in blocco degli italiani che nel fascismo sono cresciuti, nel fascismo (in maggioranza) si sono riconosciuti e, una volta finalmente disamoratisi alla luce delle tragedie individuali e collettive sopportate, hanno preferito scaricarlo sul conto di altri pochi piuttosto che caricarlo sulla propria coscienza, attuando in tal modo un colossale lavacro delle proprie responsabilità di cittadini e di democratici”.
Non bisogna schiacciare, dunque, sotto un giudizio etico-politico i fenomeni che si vanno studiando e lasciar parlare i fatti. Questa è una lezione che Angelo Abis, il quale per la sua storia personale avrebbe potuto far gravare sulla sua ricostruzione storica un punto di vista passionale ed emotivo, ha di fatto recepito nel suo “L’ultima frontiera dell’onore. I sardi a Salò” (doraMarkus, 2009, euro 15,00). Abis, con questo lavoro, indaga su una pagina ancora sconosciuta della Sardegna, arrivando a conclusioni del tutto inattese: circa 10.000 sardi aderirono alla Repubblica di Salò, il doppio rispetto a quanti invece presero parte alla Resistenza. Il saggio, insomma, si presenta in maniera speculare ai volumi pubblicati negli anni Ottanta e dedicati all’antifascismo isolano e lo si può certo considerare un utile contributo alla ricostruzione, tuttora lacunosa, dell’album di famiglia dei sardi usciti dalla dura esperienza della guerra civile.
Per valutare il libro di Abis, comunque, serve adottare le chiavi di lettura che egli stesso ci offre: da un lato informare, dall’altro interpretare e spiegare. Sul primo di questi versanti, Abis è abbastanza chiaro: è vero che sull’adesione di molti illustri sardi alla Rsi si sapeva già tutto (Giuseppe Biasi ed Ennio Porrino,ad esempio), ma è anche vero che tali conoscenze sono sempre state riservate a piccole elites di storici che hanno deciso se e quanto divulgare.
Quanto invece all’interpretazione degli eventi, le motivazioni dell’adesione di circa diecimila sardi alla Repubblica sociale, lo scenario è meno univoco e chiaro, perché nessun criterio oggettivo potrà mai imporsi alla percezione che ciascun soggetto ebbe, in quei giorni, delle proprie ragioni e dei torti altrui. Su questo versante ci aiuta non poco la prefazione di Giuseppe Parlato, storico dell’Università di Roma, a cui si deve un importantissimo studio, edito da Il Mulino, sulle origini del neofascismo italiano (Fascisti senza Mussolini, Il Mulino). Perché, si chiede Parlato, in una Sardegna che «visse in sordina le vicende del fascismo repubblicano, del movimento partigiano, della lotta fratricida» ci fu un’adesione tanto ampia alla Rsi? Le motivazioni sono molteplici ma presentano caratteristiche alquanto singolari.
Nell’ultimo fascismo Il rivoluzionarismo riemerse in forme radicali e confuse e portò avanti, assieme alle istanze socializzatrici e repubblicane, anche la rivendicazione dei valori legati alla tradizione militare: la patria, l’onore, la fedeltà ai principi del fascismo, la fedeltà all’alleato tedesco. I sardi che aderirono alla Repubblica sociale italiana erano in maggioranza militari che decisero di non disertare, ma se i valori tradizionali costituirono un denominatore comune, l’adesione dei sardi presentava, come si diceva, una sua particolare peculiarità per la presenza dell’autonomismo e dell’antiborghesia. «L’idea che quella del sardofascismo fosse una soluzione ottimale – scrive Parlato – combinando autonomismo, sensibilità sociale, spinte rivoluzionarie nel quadro di un riferimento leale al fascismo, rimase presente ma sotterranea in molti esponenti del fascismo isolano». Autonomismo e rivoluzione, verrebbe voglia di dire con un facile schematismo, e le posizioni di rilievo raggiunte nella Rsi da personaggi come Paolo Orano, sindacalista rivoluzionario; Ugo Manunta, sindacalista e socializzatore; Stanis Ruinas, fascista di sinistra, sembrerebbero avvallare questa ipotesi. Ma il discorso ci porterebbe molto lontano. Il libro di Abis, in definitiva, getta una nuova luce su quei lontani eventi, con l’auspicio che gli avvenimenti del 1943-1945 non continuino a pesare sul capitale di legittimazione degli attuali attori politici di un’Italia ormai entrata nel XXI secolo.
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