Il Tamburino Sardo


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ciao

Rubrica bassa cucina

Ciao, Maria Ausilia
(Giampiero Muroni)


L’avevo conosciuta nel 2006, quando era venuta a Sassari per la presentazione del suo libro autobiografico, “Quando il mondo si fa piccolo”, in cui raccontava il suo incontro con il carcere, il suo precipitare dentro quella stagione che, insieme alla malattia, ne ha segnato gli ultimi anni.

Ne avrebbe voluto fare un atto d’accusa verso tutti: la stampa, i magistrati, i suoi nemici; l’editore l’aveva convinta a tagliare le parti che replicavano il processo, lasciando soltanto quelle nelle quali risaltasse il suo dolore, l’umanità, la pietà, la generosità di una donna che faceva politica, come sempre aveva fatto, per leggere più chiaro il piccolo mondo dei “ristretti” in cui la vita l’aveva portata.

Un libro sul carcere scritto da chi possedeva gli strumenti per interpretarne i meccanismi di potere, di sopraffazione, di umiliazione vissuti inconsapevolmente dalle sue compagne di cella.

Fu una presentazione intensa, commossa, ricca quella che si tenne nel salone di Mater Ecclesiae, in cui la sofferenza di chi vive privata della dignità negata ai detenuti fece premio sull’immagine fosca con cui era stata dipinta. La “zarina” lasciò il posto alla persona, la “mantide” all’essere umano, liberata grazie al suo racconto della lettera scarlatta aggiunta spesso, come sovrappiù afflittivo, alle condanne irrogate alle donne.

Sbagliò molto chi non venne, allora, spaventato dal rischio di essere confuso con la sua vicenda processuale: i tanti cuor di leone del PD che lasciarono da sola ad Alba Canu – gliene va dato merito – il peso di chiamarla “compagna”, per gli anni in cui lei lo era stata, dentro al sindacato.

E che di politica ne avesse masticato lo si capiva da come affrontò le fasi confuse del suo rapporto con la Giustizia, con il senso di una lotta dialettica in cui la sproporzione di potere non contava: la dimostrazione della verità con le armi dei fatti e della logica erano il suo terreno e su quello combatteva.

La sua storia nelle aule dei tribunali fu complessa e singolare: l’attentato che subì (che fu accusata di avere simulato) non fu mai discusso, mentre le vicende che da quella simulazione avrebbero avuto conseguenza videro realizzarsi il processo più rapido della storia – pochi anni per tre gradi di giudizio ed un ergastolo.

Per lei fu inaugurato in Sardegna il reato di associazione mafiosa, caso unico finora: la piovra fu sconfitta al suo primo apparire su quest’Isola, nella tesi inedita della sua sentenza.

Il testimone chiave fu una donna, confidente del suo complice, affidabile per più corti; un’altra donna, che in carcere confidò a lei di conoscere una realtà differente, non fu mai ascoltata. Questo la infuriava: l’imparità nella lotta, non il suo esito, che dentro di sé credo conoscesse bene, ma che non ha mai accettato di riconoscere.

Come nella lotta che ha combattuto col tumore: fiera fino a mostrarsi agli altri quando la sofferenza le concedeva quelle pause di dignità fuori dalle quali solo la famiglia le era di sostegno. Consapevole di ciò cui la probabilità la conduceva, ma fiduciosa sempre di una diversa conclusione – almeno a parole, almeno di fronte a chi voleva proteggere dalla sua paura.

Era brava a vestire di normalità quella vita spaventosa che viveva, brava ad essere una madre apprensiva – per la parte che dei suoi rapporti condividevamo –, brava a divertirsi nei pranzi che ci aveva offerto, a casa sua, parentesi di serenità in licenza dalla sua doppia detenzione, dal carcere e dalla malattia.

La vitalità e la curiosità per tutto ciò che stava fuori dal recinto delle sue possibilità animavano i suoi occhi neri di una luce che faceva dimenticare a chi le stava di fronte, prima ancora che a se stessa, la pesantezza di una realtà e di un passato da cui non voleva farsi abbattere.

La realtà delle sentenze che la vita le aveva inflitto, chissà quanto giustificate da un passato sbranato nei processi e messo in piazza, che si sforzava di rintuzzare, con tutta l’anima che aveva in corpo.

Si è sempre dichiarata innocente degli omicidi che le erano stati attribuiti e da innocente si comportava. Il beneficio del dubbio, almeno da parte di alcuni, è stata la concessione più grande che ha goduto – penso ne abbia fatto tesoro fino all’ultimo. Crederle invece è stato un dono che le hanno offerto in pochi.

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Maria Ausilia non l'ho conosciuta quando frequentava i palazzi del potere, ma dopo, quando aveva già sperimentato la barbarie degli istituti di pena e la durezza della macchina processuale. E sono convinto che in lei era restato soltanto il meglio della sua esperienza politica e sindacale: la volontà di lottare per cambiare le cose.
Non parlo della sua volontà di ribaltare gli esiti dei processi, perché nel merito di quei processi non sono entrato allora ed ancor meno intendo entraci ora.
Parlo della sua caparbia decisione di rivendicare un carcere a dimensione della nostra Costituzione, con tutti gli strumenti disponibili, sempre nel pieno rispetto delle regole.
Questo le è stato addebitato ad ulteriore colpa dalla quasi totalità del mondo politico, come se di carcere dovessero occuparsi non i detenuti, che vivono sulla loro pelle una situazione insostenibile di diffusa e sfrontata illegalità, ma le dame di carità o, al limite, quei quattro gatti dei radicali.
Maria Ausilia è scesa in campo, non per sè, ma per tutti quelli che vivono nelle sue condizioni. Anzi, per non usare un linguaggio berlusconiano, Maria Ausila, dal baratro di una cella, è salita alla politica,
Ciao, mia cara amica!

Paolo Buzzanca




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