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Rubrica Dispensa
UNA COSTITUZIONE LIBERALE PER L’ITALIA
(Pietro di Muccio de Quattro)
Conferenza tenuta al Centro Congressi
dell’Unione Industriale di Torino
il 19 aprile 2007
Parlando in generale, i cattivi costituzionalisti somigliano agli
idraulici, i quali la sanno lunga di tubi e rubinetti, però non hanno
a cuore la qualità dell'acqua che ne sgorga.
Questa conversazione trae lo spunto dal mio pamphlet "Orazione per la Repubblica", (sottotitolo "Una critica della Costituzione italiana"), pubblicato da Liberilibri di Macerata nel 2001 in seconda edizione. Nel risvolto di copertina l'editore ne riassume il carattere con queste parole: "Una penetrante e impietosa analisi della Costituzione italiana, condotta senza le timidezze che la rituale soggezione alla mitologia costituente fa pesare sul dibattito costituzionale."
Dunque, di che critica si tratta? Il mio è il punto di vista di un liberale classico. Sono costretto a specificare "classico". Non per civetteria, ma per precisione e per distinguermi dalla vasta massa dei "liberals" e dei sedicenti liberali, specie dell'ultim'ora, appena scampati ai recenti crolli della Storia e tuttavia, ahimè, tumidi nell'ergersi a professori di scienza della libertà e nel pretendere d'insegnarcela come se fossimo noi, non loro, i neofiti del liberalismo. Parlerò dunque della Costituzione alla luce dei principi del liberalismo classico, che la nostra Carta o trascura o distorce o confonde.
Mi rendo conto che criticare la Costituzione è come dir male di Garibaldi, ed espone ad aspri rimproveri e alle peggiori accuse. Però, vado ripetendo le mie critiche da oltre vent'anni. Non ho aspettato la morte del comunismo e dell'ideologia resistenziale per formularle, scriverle, diffonderle. Prima, le orecchie della politica e della dottrina erano sorde a questo genere di censure. Adesso, vanno aprendosi. Il dibattito coinvolge ormai tutta la classe dirigente. Con "La democrazia illiberale (Un memorandum sull'Italia del 1984) mostrai come e perché il sistema (politico economico, sociale) italiano fosse bensì una "democrazia", ma nel complesso "illiberale", definizione che il presidente della Corte costituzionale Giovanni Conso giudicò "brillantemente polemica". Nel 1990, con la prima edizione di "Orazioni per la Repubblica", ho spiegato i motivi per i quali la nostra Costituzione deve considerarsi poco liberale, e perciò scaturigine di gran parte dei nostri mali presenti. Il prossimo anno la Costituzione compirà sessant'anni. La Storia ha camminato, ma siamo governati ancora da una Costituzione permeata di superstizioni ottocentesche e fallimenti novecenteschi. Il socialismo, l'ideologia contrapposta al liberalismo, impronta la nostra Costituzione con formule vistose e sfumate. Del resto il socialismo, anche quando agisce nei modi meno espliciti od inconsapevoli, affonda nell'humus profondo della nostra nazione, mentre il liberalismo è stato il credo di un'elite risorgimentale: la Destra storica.
Le vicende sono note. La nostra Costituzione vede la luce alla fine di un'immane catastrofe nazionale e della guerra civile settentrionale, ma viene ritualmente presentata come il frutto superbo di una vittoria di popolo e di un'epopea di libertà. Se la nostra Costituzione è davvero "nata dalla Resistenza", come ha sempre proclamato in coro la dottrina ufficiale repubblicana per magnificarne un pretese carattere superiore, è vero pure che ne porta le stimmate. I difetti che la lettura liberale della Costituzione evidenzia non possono essere presentati, come fanne taluni, sia politici sia costituzionalisti, alla stregua di pecche acquisite o deviazioni fattuali dal modellino costituzionale. Nossignore, sono tare ereditarie.
La Costituzioni è nata così. E' stata un compromesso. Ma non nel senso profondo di accordo sull'idem sentire de Republica. Al contrario, fu un compromesso negativo, una soluzione incoerente e discutibile a cui costrinsero motivi contingenti. Il significate compromissorio deteriore fu determinato dal fatto che i partiti della cosiddetta "esarchia", che avevano dato luogo al comitato di liberazione nazionale, erano tutti, eccetto il partito liberale, lontani o addirittura antitetici al genuino liberalismo quello classico, ed al costituzionalismo, quello vero. Nell'Assemblea costituente non mancarono le personalità, anche di straordinario ingegno e valore, giuridico e politico, ma la sapienza tecnica di giuristi ed economisti fu piegata alle necessità ideologiche, dunque politiche, dei partiti. Oggi mi domando retoricamente come potevano dar luogo ad una Costituzione liberale i Costituenti che sotto essenziali profili discordavano sulla natura umana, sui fini della politica, sulla visione de mondo. Cosa avevano in comune un maestro di etica liberale, come Einaudi, e un cinico comunista, come Togliatti? Cosa poteva unire un santo cristiano, come Do Gasperi, e un Togliatti correo di crimini staliniani? Democristiani e comunisti si accordarono sugli articoli 7 e 8 della Costituzione, e cioè sui rapporti tra Stato e Chiesa, ma a De Gasperi premeva la religione cattolica, mentre a Togliatti il voto dei cattolici. La Costituzione degli Stati Uniti d'America, la quale è per antonomasia "la" Costituzione liberale, nel Primo Emendamento proibisce categoricamente al Congresso (il parlamento), cioè allo Stato, di emanare leggi per il riconoscimento di qualsiasi religione o per proibirne il libero culto. Questo Emendamento, il primo articolo del Bill of Rights, che, secondo una tesi, vietava solo i trattamenti preferenziali, è stato applicato secondo l'interpretazione di Thomas Jefferson, uno dei padri della Costituzione e autore della Dichiarazione di Indipendenza, nel senso che "alza un muro divisorio tra la Chiesa e lo Stato". I rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica rappresentano una questione fondamentale, non solo perché l'Italia è una nazione cattolica ma anche perché la Chiesa è istituzione romana. Il papa è papa perché vescovo di Roma, non vescovo di Roma perché papa. Però da un punto di vista liberale, favorire una religione, è contraddittorio. Si comprende qui in Italia, ma non si giustifica in generale. Inoltre la Chiesa è l'istituzione politica che conserva le vestigia giuridiche della romanità. Tante cose della Chiesa ricordano l'antica Roma: il papa si chiama pontefice, i cardinali indossano la porpora dei senatori e degli imperatori, le cerimonie pontificali hanno lo sfarzo dei riti imperiali, la curia riecheggia l'amministrazione romana, la volontà del papa è legge (quod principi placuit legis habet vigorem) sebbene l'ordine ecclesiastico riposi sul codice di diritto canonico.
La nascente Repubblica italiana (ricordo che il 2 giugno 1946 il popolo votò il referendum tra monarchia e repubblica ed elesse pure l'Assemblea costituente), per un ordinamento nuovo che rifondava lo Stato, aveva necessità della pace religiosa. Già conduceva una battaglia vitale sul fronte politico. Non poteva tenere aperto anche il fronte cattolico, riesumando la "questione romana". Fu allora che il Cattolicesimo acquisì un merito storico incancellabile per gl'italiani. Fu grazie alla Chiesa che i socialcomunisti furono sbaragliati il 18 aprile 1948 e l'Italia restò ancorata al mondo libero, scampando al terribile pericolo d'esser risucchiata dietro la cortina di ferro. Incidentalmente vorrei notare quanto sia dura a morire la favola secondo cui nelle elezioni cruciali del 1948 l'Italia non rischiò nulla perché, seppure le avessero vinte i comunisti, gli Americani avrebbero rimesso, per così dire, le cose a posto. I documenti storici sembrano provare, al contrario, che, se avessero prevalso i comunisti, l'Italia sarebbe precipitata in una condizione jugoslava. E nessuno l'avrebbe salvata.
La Costituzione italiana è formata da quattro parti. La prima parte riguarda i "principi fondamentali", che, a ben vedere, proprio tutti fondamentali non sono. La seconda sancisce i diritti e doveri dei cittadini nei vari campi. La terza stabilisce l'ordinamento della Repubblica, cioè l'assetto istituzionale (capo dello Stato, parlamento, governo, magistratura, enti locali). L'ultima parte è composta dal norme transitorie e finali che hanno il carattere della temporaneità. Disciplinar situazioni destinate ad esaurirsi nel tempo o speciali, come il divieto di ricostituzione del partito fascista, che permane, e il divieto di rimpatrio dei Savoia, che solo una recente norma costituzionale ha abrogato.
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Un'altra prova della natura compromissoria in senso deteriore della Costituzione italiana sta nel fatto che i partiti che votarono a stragrande maggioranza la Costituzione (l'Assemblea costituente era formata da 556 membri: il 27 dicembre 1947 i vo favorevoli furono 453 e 62 i contrari) appena quattro mesi dopo, il 18 aprile 1948 si combatterono nelle piazze in uno scontro frontale ed epocale. La posta in gioco era una scelta di vita: la libertà, la democrazia, la giustizia, l'umanità, la civili liberale, contro la servitù, la dittatura, il collettivismo. Fu un urto mortale tra l'individualismo liberale e il socialismo statalista. La divisione era netta, se consideriamo i massimi sistemi; più sfumata, se guardiamo alla politica spiccioli Infatti c'erano democristiani più socialisti di molti socialdemocratici. Sotto diversi profili, un Saragat era meno socialista del democristiano Dossetti. Il punto cruciale fu che il Fronte popolare filosovietico e l'alleanza democratica filoccidentale avevano due capi carismatici ed indiscussi, Togliatti e De Gasperi, un comunista ortodosso e un cattolico liberale, che incarnavano fisicamente, politicamente, moralmente le due Italie che essi prospettavano, contrapponendole, agli elettori italiani. Come si può quindi sostenere ciò che hanno sempre sostenuto, cioè che la Costituzione italiana abbia realizzato un compromesso virtuoso, se le parti contraenti di questo patto erano persone antitetiche in tutti i campi e in ogni senso. Facciamo di nuovo il paragone con gli Stati Uniti: 156 sottoscrittori della Dichiarazione d'Indipendenza e 139 firmatari della Costituzione americana erano ultra d'accordo sui principi che animavano questi due documenti; straconcordi nel rompere con la madrepatria ma non con la "libertà inglese"; straconvinti che la Costituzione avesse il preciso scopo di fondare la nascente Unione in modo che in futuro le istituzioni del nuovo Stato non potessero privare i cittadini della libertà e della proprietà. Per contro le norme della nostra Costituzione non solo hanno, in modo diretto, poggiato la libertà e la proprietà su basi fragili ed insicure, ma soprattutto sono in generale aliene dal vietare e piuttosto inclini a “procedimentalizzare” l'attività dei poteri pubblici senza fissare confini invalicabili.
La Carta italiana ha trasformato il concetto di Costituzione da invincibile limite che garantisce la protezione sostanziale e assoluta degli individui e dei diritti, a formale condizione o modo per ottenere quasi ogni risultato, prescrivendo i caratteri dell'azione pubblica piuttosto che l'intangibilità delle persone e dei beni. E questa mutazione essenziale da limes a onus rappresenta l'errore fatale del costituzionalismo contemporaneo: un errore commesso da politici e giuristi spesso inconsapevoli di contribuire al rivolgimento del costituzionalismo propriamente detto, alla distruzione del vero diritto, alla crescita di un regime dispotico. Nel significato profondo, genuino, intrinseco, la Costituzione è come l'ombrello. Serve quando piove. Ossia, se gli uomini fossero tutti per natura rispettosi dei diritti altrui, la Costituzione non avrebbe ragione di esistere. Sarebbe un inutile pezzo di carta. Invece il movimento costituzionale affonda le sue origini storiche nell'esigenza vitale, corroborata dall'esperienza umana, che occorresse proteggere l'individuo da costrizioni e restrizioni ingiuste delle autorità e dei privati, e garantirgli la libertà e la proprietà. Politicamente, il costituzionalismo ha come terzo compito la separazione dei poteri, che questa garanzia assicura. Il costituzionalismo consiste quindi nella separazione e limitazione dei poteri allo scopo di preservare la libertà individuale e proteggere la proprietà privata. Come recita il Preambolo della Costituzione americana, "Noi, popolo degli Stati Uniti, decretiamo e stabiliamo questa Costituzione ... allo scopo di salvaguardare per noi stessi e per i nostri posteri il dono della libertà". In termini semplici e pratici, ogni vera Costituzione è una lista di proibizioni. La Costituzione in sé è la proibizione suprema: l'inibizione al Legislativo, all'Esecutivo, al Giudiziario di violare ingiustamente la libertà. Purtroppo, ecco il punto, la nostra Costituzione è abbastanza carente delle norme che, al contrario, sarebbero indispensabili, cioè contiene pochissime disposizioni propriamente "negative", che, invece di autorizzare, proibiscano.
Sotto l'influsso delle ideologie socialiste ottocentesche, la nostra Costituzione, che vede la luce a metà del Novecento, viene deturpata dalla retorica del lavoro. Addirittura il primo dei dodici principi fondamentali pone il lavoro a fondamento della democrazia repubblicana (art. 1). Straordinaria e illuminante coincidenza con la coeva Costituzione dell'Unione sovietica! Infatti, la Costituzione bolscevica del 1947, pur essa con dodici articoli basilari sulla struttura della società, stabilisce che l'URSS è "uno Stato socialista degli operai e dei contadini" (art. 1) e che "tutto il potere dell'URSS appartiene ai lavoratori rappresentati dai Soviet" (art. 3). Ma il più eloquente dei principi fondamentali della Costituzione sovietica è l'art. 12, che merita di essere citato e ricordato per la sua icasticità: "II lavoro è nell'URSS dovere ed oggetto d'onore per ogni cittadino atto al lavoro, secondo il principio: `Chi non lavora non mangia'.
"Nell'URSS si attua il principio del socialismo: `Da ciascuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro' ".
Considerando le vaste sacche di parassitismo diffuse negli apparati pubblici dell'Italia odierna, un po' di questa medicina forse sarebbe utile al nostro Stato!
Le parole "lavoro" e "dovere" ricorrono spesso nella Costituzione italiana, di fatto rivelando lo spirito del tempo non meno degli echi mentali dei nostri Costituenti.
Cercheremmo invano, invece, la parola "lavoro" (e, andando a memoria, pure "dovere") nella Costituzione americana. Con questa conseguenza, solo apparentemente paradossale, che nell'Urss il lavoro era sfruttato e i lavoratori non contavano nulla, mentre il lavoratore americano esercita un reale potere democratico e la paga dipende dalla produttività. Altra bizzarra concordanza tra Costituzione italiana e Costituzione sovietica: il titolo della nostra Parte I coincide alla lettera con il Capitolo X della Carta bolscevica: "Diritti e doveri (fondamentali) dei cittadini."
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I meccanismi di revisione costituzionale sono necessariamente complicati, per evitare che occasionali maggioranze, accidentali tendenze e persino contingenti umori riescano a sovvertire la Costituzione. Ma qui si verifica un colossale paradosso che non viene quasi mai evidenziato: se la Costituzione è liberale, il procedimento aggravato per modificarla svolge una funzione positiva; se la Costituzione proprio liberale non è, il procedimento stesso diventa un grande ostacolo al miglioramento e funge da freno oggettivo allo sviluppo liberale dell'assetto costituzionale. In Italia siamo passati da una vera e propria ideologia dell'intangibilità della Costituzione all'accettazione dell'opportunità e quasi della necessità di rivederne la Parte II sull'Ordinamento della Repubblica. Continua a permanere il mito della perfezione dei Principi fondamentali e della Parte I sui Diritti e Doveri dei cittadini: verità non compresa o non detta è, al contrario, che l'evoluzione verso una società ed uno Stato compiutamente liberali è impedita precisamente dalle formulazioni ed omissioni dei Principi e dei Diritti e Doveri, piuttosto che dall'assetto istituzionale, sebbene quest'ultimo sia affetto da un vizio di fondo che non è specifico dell’Italia, ma tipico del governo parlamentare come realizzatosi in molte esperienze costituzionali: alludo, e vi accennerò più avanti, all'erosione della separazione dei poteri tra Legislativo ed Esecutivo e alla vanificazione del concetto di legge. Finora, dal 1948 ad oggi, abbiamo avuto quattordici leggi di modifica della Costituzione.
La prima risale al 1963; l'ultima, al 2003. Tali modifiche hanno riguardato punti in genere non decisivi. Importanti, ma limitati, ad eccezione della revisione del Titolo V sull'ordinamento di Regioni, Province, Comuni. Le altre modificazioni hanno per oggetto la durata del Senato, l'istituzione del Molise, la durata dei giudici costituzionali, i reati ministeriali, il semestre bianco, l'amnistia, le autorizzazioni a procedere, il giusto processo, la circoscrizione elettorale "estero", i parlamentari ivi eletti, il rimpatrio dei Savoia, le pari opportunità tra donne e uomini. Infine, nella scorsa legislatura il Parlamento ha tentato una modifica radicale della Parte II della Costituzione, ma se l'è vista bocciare dal popolo italiano. Se cambiare è dunque necessario, diventa indispensabile che il cambiamento miri a conseguire i tre scopi di una vera Costituzione liberale, prima indicati, e che la revisione coinvolga pertanto, e soprattutto, quelle parti che la mitologia costituente ama presentare come espressione di un'ideale perfezione.
Ma, purtroppo, personalmente sono più che scettico a riguardo. Non credo affatto che esista al momento quel largo consenso indispensabile ad approvare una profonda revisione costituzionale che garantisca davvero la libertà individuale, tuteli puntualmente la proprietà privata e separi effettivamente i poteri statuali. Tra i Principi fondamentali abbiamo 1'articolo 12 che stabilisce: "La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni". Sono un patriota. Amo il tricolore, che garrisce tutto l'anno, giorno e notte, sul pennone davanti alla mia casa. E tuttavia vi domando: "Possiamo considerare la bandiera un principio fondamentale della Repubblica senza cadere nel ridicolo"?
Se passiamo ad esaminare l'articolo 3, architrave della Costituzione, perché non esiste democrazia senza uguaglianza legale dei cittadini, il primo comma è di stampo liberale e recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali ". Il secondo comma invece prescrive: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Il primo comma accoglie il concetto di "isonomia" che dalla Grecia classica ha fondato l'uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Lo stesso principio che, con ben altra precisione letterale e semantica, campeggia in tutte le aule di giustizia: "La legge è uguale per tutti". Nella Costituzione la forma è più ampollosa per permettere di collegarvi il secondo comma, che autorizza quelle che oggi sono definite "azioni positive". Una variante simile, in qualche modo "applicativa" di questo principio fondamentale, è stata introdotta con la nuova formulazione (anno 2003) dell'art. 51 che promuove le pari opportunità tra donne e uomini nell'accesso alle cariche elettive ed agli uffici pubblici, e con una norma temporanea (anno 2004) sull'elezione del Parlamento europeo in materia di "quote rosa". L'articolo 3 legittima costituzionalmente ogni azione discriminatoria. Il principio di eguaglianza impone trattamenti eguali per situazioni eguali e trattamenti differenziati per situazioni differenziate, in base al principio di ragionevolezza. Se l'autorità pubblica ha il potere di parificare legalmente situazioni soggettive differenti o tratta in modo diverso situazioni uguali, in realtà discrimina e cerca di ottenere risultati predeterminati infrangendo l'uguaglianza legale. La Repubblica italiana ha per caposaldo un principio di eguaglianza contraddittorio nella forma e nella sostanza, e pericoloso perché consente al legislatore di violare l’"isonomia" e di trattare arbitrariamente chiunque. Per restare alla questione di stretta attualità delle "quote rosa", se tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di sesso, le nonne preferenziali per le donne sono discriminatorie e incoerenti con l'affermata parità. Sancire che la legge è uguale per tutti serve appunto a vietare che il legislatore possa emanare norme "più uguali" per il cosiddetto sesso debole. Questo tipo di critica non è usuale. Raramente si trova nei manuali costituzionali perché esiste alla base un'ideologia egualitaria che ritiene giusto intervenire per modificare le posizioni materiali. Sennonché, l'uguaglianza legale non ha nulla a che vedere con l'egualitarismo, che ne costituisce la degenerazione economica e la versione redistributiva; non significa che dobbiamo tutti possedere la stessa quantità di beni (tutti ricchi allo stesso modo o tutti poveri allo stesso modo); l'eguale protezione della legge implica necessariamente che la norma abbracci la generalità degli individui della stessa categoria o nella medesima condizione. Considerando il lato etico della questione, l'immoralità dell'egualitarismo risulta evidente agli uomini giusti e parrebbe implicita nelle fedi religiose. E' stato infatti acutamente osservato che il senso morale si fonda sulla stima differenziata dei comportamenti individuali. Il diritto, secondo il grande giureconsulto Ulpiano, consiste essenzialmente in questo: "Honeste vivere, neminem laedere, suum cuique tribuere". Per gli antichi Romani, "aequitas" è sinonimo di "iustitia", che significa attribuire a ciascuno ciò che gli spetta secondo una legge uguale per tutti. Tra i principi fondamentali troviamo pure "l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" (art. 2). Cosmica, no! Questo proclama dal vago sentore evangelico è una fumisteria costituzionale. Che significa in termini giuridici? Nessuno può saperlo. A tacere che il compito di una Costituzione non consiste nell'imporre o auspicare il bene, bensì nell'impedire il male. L'art.4 rappresenta poi una perla da statuto totalitario, ben incastonabile in una Costituzione collettivista. E non così per dire. Vi si afferma: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività ed una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società". Per quanto possa scandalizzarvi, la pura verità è che uno Stato libero non può riconoscere il diritto al lavoro. L'assurdità di un tale "diritto" era stata ben compresa addirittura un secolo prima che venisse inopinatamente sancito nella nostra Costituzione. Questa fu infatti la mirabile definizione che ne diede Nicolò Tommaseo: "Diritto al lavoro dicevasi il pretendere, che gli operai facevano, da' governanti occupazione lucrosa, sì che il governo diventava capomastro e commerciante, emulo delle private industrie, prepotente insieme e impotente". Se tutti possedessero naturalmente un diritto al lavoro, la Repubblica avrebbe l'obbligo legale di garantirlo, assegnando a ciascuno un impiego o un compito retribuito. Questo in teoria potrebbe accadere solo se lo Stato riuscisse ad essere padrone di tutto, ma a prezzo d'istituire un rapporto mostruoso di dipendenza con i cittadini. Lo Stato diverrebbe il dispensatore del sostentamento materiale di tutti. Una gigantesca tirannia asservitrice. E questo è bensì un principio fondamentale, ma del comunismo! Eccone la stupefacente prova. L'art. 118 della Costituzione sovietica del 1947, sul quale sembra ricopiato il nostro art. 4, stabilisce infatti: "I cittadini dell'URSS hanno diritto al lavoro, cioè hanno diritto ad ottenere un lavoro garantito, con remunerazione del loro lavoro secondo la qualità e la quantità. Il diritto al lavoro è assicurato dall'organizzazione socialista dell'economia nazionale, dallo sviluppo ininterrotto delle forze produttive della società sovietica, dall'eliminazione della possibilità di crisi economiche e dalla liquidazione della disoccupazione." Sappiamo com'è andata a finire.
Chi osservi la nostra Costituzione con lenti liberali è costretto a gettare uno sguardo critico anche sugli articoli 10 e 11, relativi ai rapporti internazionali. L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie fra Stati. E' chiaro che il rifiuto riguarda la guerra offensiva, mentre quella difensiva non solo è ammessa, ma fa scattare per il cittadino il dovere addirittura "sacro" di difendere la Patria (art. 52). Tuttavia la distinzione tra guerra offensiva e difensiva talvolta è un capello troppo sottile da spaccare. Inoltre, è sempre valido, e gli Stati vi si attengono secondo le loro possibilità, il monito "si vis pacem, para bellum". Infine, tutto dipende dal concetto di pace. Nell'elogio funebre di Pericle, gli Ateniesi caduti in guerra erano da emulare perché "la felicità consiste nella libertà e la libertà nel coraggio". Sulla sua scia, Cicerone formulò la più bella definizione della vera pace: "Pax est tranquilla libertas". Lo stesso padre del moderno pacifismo, Gandhi, spesso mal compreso, disse che "la non-collaborazione con il male è un dovere al pari della collaborazione con il bene ...un topo non perdona il gatto se non può far altro che lasciarsi sbranare". Queste norme hanno consentito non solo l'adesione dell'Italia a varie organizzazioni internazionali implicanti limiti alla sovranità nazionale ma anche la sottomissione dell'ordinamento italiano all'ordinamento comunitario, prima mediante la giurisprudenza costituzionale, poi con l'esplicito riferimento introdotto di recente (anno 2001) con la nuova formulazione dell'art. 117, secondo cui la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni viene esercitata nel rispetto della Costituzione e dei "vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali." Ma l'Unione Europea permane incompiuta, in bilico tra implosione e federazione.
II tentativo di dotarsi di una vera Costituzione è abortito per il rifiuto di alcuni popoli di ratificare il Trattato costituzionale. Orbene, dare una Costituzione a tante e così diverse nazioni mediante un trattato formulato da una Convenzione di delegati anziché da un'assemblea costituente, è stato un grave errore di metodo e di merito; errore che ne ha prodotto un altro più grave. Il testo costituzionale bocciato constava di 448 articoli, prolissi e confusi! La nostra, che pure è catalogata tra le Costituzioni "lunghe", ne ha 139. Quella americana ha 7 articoli, sebbene con più Sezioni, e 25 emendamenti (in realtà 27 perché quello sulla proibizione degli alcolici fu prima introdotto e poi abrogato), in genere di poche righe. Ai 448 articoli del Trattato avremmo dovuto aggiungere i 54 articoli della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata solennemente dal Consiglio, dalla Commissione e dal Parlamento europeo nel vertice di Nizza del dicembre 2000, ma senza valore giuridico vincolante perché nessun cittadino europeo può avvalersene in giudizio. Un castello di carta e di Carte. Invece del quale, da liberale, auspicherei, al contrario, una semplice quanto sbalorditiva disposizione, immediatamente azionabile in giudizio, che scateni la concorrenza tra sistemi e soggetti giuridici, determinando la progressiva espansione della sfera protetta delle libertà politiche ed economiche. Per sintetizzarne il principale carattere, la definirei "Clausola della libertà preferita". In primo abbozzo, l'ho concepita così: "Ogni cittadino di uno Stato dell'Unione europea potrà invocare davanti a un giudice, in qualsiasi situazione e senza restrizioni, nel proprio Stato e nei rimanenti Stati, i diritti più favorevoli riconosciuti da ciascun altro Stato ai suoi cittadini". Questa clausola dovrebbe essere inserita nelle Costituzioni degli Stati membri o da essi ratificata come trattato. Se dovrà essere la libertà il blasone d'Europa.
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Il difetto fondamentale della nostra Costituzione per quanto riguarda le libertà sta nell'affidarle alla "riserva di legge". I giuristi sanno che "riserva di legge" significa che una materia o un diritto devono essere regolati con legge. "Stato di diritto", in senso proprio, significò all'origine "Stato di leggi", versione continentale della britannica "rule of law" ossia "governo della legge". Qui "legge" equivale a "diritto". Il "diritto" conferisce i "diritti". Attenzione! In inglese "diritti" suona "rights", plurale di "right", ciò ch'è giusto. In italiano la parola "diritto" nacque in contrapposizione a "torto", inteso come "ritorto", cioè "non lineare". "Diritto" e "giustizia" non hanno affatto la stessa radice verbale, sebbene la nostra lingua derivi dal latino e noi ci vantiamo d'esser gli eredi della tradizione giuridica romana. La domanda "Utrum autem ius a iustitia dictum sit, an e contrario, iustitia a iure" riceveva in passato una risposta univoca: si chiama "diritto" perché viene dalla "giustizia", non già "giustizia" perché viene dal "diritto". Ma questa fondamentale distinzione non può essere resa nel nostro idioma per il fatto che i relativi concetti sono espressi da parole di etimo diverso.
Per conseguenza la legge dovrebbe essere vincolante perché giusta anziché essere obbedita perché comanda: "Iussum quia iustum", non "Iustum quia iussum." Poiché il Parlamento, secondo un noto aforisma inglese, può ormai fare quasi tutto, fuorché mutare un uomo in donna e viceversa (ma non è detta l'ultima parola), il confine tra la legge come espressione della giustizia e la legge come mera volontà della maggioranza è diventato labile, salvi i limiti costituzionali. Generalmente parlando, la verità è che in origine, quando il parlamento era contrapposto alla monarchia, la riserva di legge servì a sottrarre la libertà ai decreti della corona. Trasferita la sovranità al parlamento, questo, salvi sempre i limiti costituzionali, ha incominciato a scivolare negli arbitrii prima commessi dai re e ad abusare dei suoi poteri, segnatamente del potere legislativo, il più ampio e pervasivo.
Con l'evoluzione del parlamentarismo, la riserva di legge non rappresenta più una protezione per i cittadini; la legge è stata pervertita; le violazioni dei nostri diritti provengono dalle leggi, meglio: pseudoleggi, peraltro coerenti con la smisurata discrezionalità legislativa concessa al Parlamento da norme costituzionali ambigue, vaghe o d'immensa portata programmatica. Con riferimento ai singoli articoli della Costituzione che le contengono, è possibile contare ben 58 riserve di legge. Ma in realtà esse sono più del quadruplo, se consideriamo le materie "riservate", che per giunta sono ampie ed innumerevoli. Beninteso, molte riserve di legge riguardano non già i diritti, ma l'organizzazione delle istituzioni pubbliche, e in ciò sono ragionevoli, almeno in astratto. Ma le riserve di legge che si riferiscono alla libertà individuale e alla proprietà privata rimettono i nostri beni più preziosi nelle mani delle maggioranze parlamentari, che possono fare di noi quasi tutto quello che ad esse aggrada. E mentre l'una e l'altra finiscono nelle grinfie del Parlamento, quando non addirittura di un consiglio regionale, noi non possiamo appellarci direttamente neppure ad una delle disposizioni costituzionali per reclamare un diritto o reprimerne la violazione. Non possiamo pretenderne da nessun giudice l'applicazione immediata, a nostra difesa, ma soltanto eccepirgli l'incostituzionalità della legge. Se poi domandassimo a qualsiasi autorità burocratica l'emissione di un provvedimento amministrativo invocando un articolo della Costituzione, ci riderebbe in faccia. Nei documentari e nei film vediamo che, di fronte al Congresso o ad una Corte, il cittadino americano si appella al V Emendamento, in base al quale "nessuno potrà essere obbligato a deporre contro se stesso." Facendolo notare, ci obiettano che in Italia accade uguale: il cittadino si avvale della facoltà di non rispondere.
Ma questa facoltà, che alle mie modeste meningi appare già contenuta, all'evidenza, nell'art. 24 della Costituzione ("La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento"), ha richiesto una legge del 2001 per essere riconosciuta, sebbene, stranamente, in relazione ed in conseguenza della revisione costituzionale dell'art. 111 della Costituzione sul giusto processo (anno 1999). Ma in realtà si tratta di una norma contenuta già nel codice di procedura penale, cosiddetto fascista, del 1930. Una legge, prima e dopo la Costituzione. Eccola, la differenza. Ciò che negli USA è parte integrante, costituzionale in ogni senso, della libertà personale e del "Bil1 of Rights" del cittadino in stato d'accusa, in Italia è in balìa della fregola legiferatoria di questa o quella maggioranza parlamentare. Forse l'esempio più clamoroso di quanto la riserva di legge sia stata pervertita da garanzia giuridica a puntello legalistico sta nelle norme sulla carcerazione preventiva, la cui durata, in vigenza, si badi bene, delle stesse norme costituzionali, ha potuto allungarsi ed accorciarsi a fisarmonica: durante gli anni bui del terrorismo ha sfiorato i dodici anni per poi ridursi parecchio ai giorni nostri. Questa elasticità evidenzia che il solenne art. 13 "La libertà personale è inviolabile" ha un valore simbolico; inoltre, che il Parlamento possiede una discrezionalità legislativa sconfinante nell'arbitrarietà; ancora, che il legislatore nutre un sostanziale disprezzo per la presunzione costituzionale d'innocenza dell'imputato fino alla sentenza definitiva; infine, che l'assunto di migliorare le capacità investigative dei magistrati viene perseguito a scapito degli innocenti. Il fatto che la presunzione d'innocenza sia rimasta un pio desiderio costituzionale dimostra, come poche altre cose, il fallimento della Costituzione quanto ai problemi della libertà. Eraclito diceva: "Bisogna combattere per la legge come in difesa delle mura". Abbiamo dovuto imparare che invece troppo spesso dobbiamo combattere per difenderci dalla legge, non per difenderla. E questo dipende dal fatto che la Costituzione, invece di proibire agli organi legislativi di fare leggi su determinati soggetti e oggetti, mette tutto in mano alle leggi. Lo schema costituzionale della Parte I è tipico. Ogni articolo s'inizia con un'affermazione assoluta, di principio, come, per esempio, "La libertà personale è inviolabile... Il domicilio è inviolabile ...la libertà e la segretezza della corrispondenza sono inviolabili..." oppure "Tutti hanno il diritto di... Ognuno può.. Tutti i cittadini hanno il diritto di...". Ma tali solenni proclami restano proclami perché, dopo la disposizione d'apertura, chiara ed evidente, vengono le frasi che sommariamente specificano le condizioni e i modi per godere di quella libertà ed esercitare quel diritto, rinviando la disciplina concreta alle leggi attuative.
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Per quanto riguarda la proprietà privata, la situazione è più semplice ma pure più complessa. Innanzi tutto non viene quasi mai notato che lo Stato e gli Enti pubblici potrebbero, volendolo e avendone i soldi, comprarsi tutte le proprietà degl'italiani.
Infatti nessun divieto costituzionale impedisce al settore pubblico d'impossessarsi del settore privato, sia con l'acquisto che con l'esproprio. Il Presidente emerito della Repubblica, il costituzionalista Francesco Cossiga, ebbe a dire che l'Italia era il maggior Paese "a socialismo reale" fuori dal mondo dichiaratamente comunista. Abbiamo avuto un enorme Stato padrone. E, benché adesso più magro, resta sempre un ricco proprietario in una famiglia di enti minori benestanti che comprano a tutto spiano. L'istinto collettivista appartiene alla natura selvaggia dell'uomo ed è sempre in agguato. Tanto è vero che, quando la proprietà è un furto, la legge prescrive di rubare ai ladri. Emblematicamente, le leggi vincolistiche sui patti agrari e sulle locazioni urbane, non meno delle leggi impositive di "equi" prezzi, salari, interessi; pigioni, canoni, eccetera, dimostrano quanto sia possente l'impulso a mettere le mani sulla proprietà altrui manipolando l'autonomia negoziale. Ecco il punto. Il codice civile stabilisce che il contratto ha valore di legge tra le parti. Semiseriamente possiamo dire che il Parlamento ne tiene conto quando s'ingerisce legiferando nei contratti tra privati, fino all'obbrobrio di subordinarne la validità all'assistenza dei sindacati e di inabilitare intere categorie di cittadini. Così, ope legis ! Come se fossero bazzecole. Secondo i classici del liberalismo, lo Stato non deve fare affari, ma amministrare la giustizia tra uomini che fanno affari, e il passaggio dal contratto libero alla norma coattiva non può essere considerato né un progresso né una conquista. Noi abbiamo passato il punto critico. La gabbia delle prescrizioni pubbliche imprigiona l'autonomia privata in spazi angusti e soffocanti. L'individuo non agisce più in libertà entro regolati confini. Occorre elevare una barriera tra la potestà legislativa e l'autonomia negoziale non mediante un'altra inutile riserva di legge, bensì con un inviolabile divieto alla legge. In proposito, tempo fa elaborai il testo di un possibile articolo di Costituzione che servisse allo scopo. Eccolo: "Nessuna legge può modificare le obbligazioni derivanti da contratti tra adulti consapevoli. Nessuna legge può rendere inefficaci i contratti e modificare anche transitoriamente le prestazioni contrattuali in corso. Nessuna legge può avere lo scopo o l'effetto di sopprimere o limitare il diritto dei privati di costituire, regolare, estinguere, nelle forme lecite, rapporti giuridici patrimoniali, e di demandarne in tutto o in parte l'esercizio alla legge e alla pubblica amministrazione". Diventato fortunosamente io stesso deputato al Parlamento, il 21 febbraio 1995 presentai alla Camera la proposta di legge costituzionale n. 2070 dal titolo "Protezione costituzionale della libertà di contratto", che riproduceva tale testo, da inserire nella Costituzione come art. 13-bis. Mi lusingo di credere che una disposizione del genere sia stata proposta per la prima volta nella storia all'attenzione di un parlamento. Tentativo fallito, ma non inutile. Il problema è posto.
L'aver affidato quasi tutto alla legge ha reso ineluttabile nei sistemi di diritto positivo, come il nostro, la proliferazione legislativa, che invece nei sistemi di diritto consuetudinario e giurisprudenziale viene naturalmente frenata dalla "common law". Inoltre accade un fenomeno poco osservato e valutato. Più le leggi aumentano di numero, più ne richiedono altre, all'infinito. Si genera una sorta di reazione a catena che espande il diritto positivo, anche mediante il meccanismo delle norme attuative e interpretative, per non parlare del semplice fatto che la legislazione esclusiva regionale ha moltiplicato per venti le fonti normative, con tutte le ovvie conseguenze. Troppe leggi sono già un male in sé, come insegna Tacito: "...et corruptissima re publica plurimae leges ". Anche in questo caso il troppo storpia. Ma c'è un'aggravante. In Italia nessuno conosce con assoluta certezza il numero delle leggi effettivamente in vigore. Le stime non differiscono di poco. Chi dice 180.000; chi 120.000; chi 90.000. Sembrano numeri a caso. Invece rispecchiano la drammatica realtà di un sistema giuridico che ignora la sua dimensione. La produzione legislativa soggiace ad un vero e proprio taylorismo normativo. Ogni estate, alla vigilia delle ferie, i presidenti di Camera e Senato gareggiano nel vantarsi di quante più leggi hanno approvato nell'ultimo anno! Eppure il Parlamento servì all'origine per rallentare anziché accelerare l'emanazione delle leggi. Gl'italiani in materia non hanno mai sofferto di crisi produttive. E pensate che vogliono abolire il bicameralismo perfetto perché ritarda (sic) l'approvazione delle leggi, quando, al contrario, il raddoppio della forza frenante ne costituisce la vera, profonda, negletta, "ratio iuris ". Anche dal punto di vista quantitativo bisognerebbe perciò introdurre divieti al legislatore che ridurrebbero drasticamente l'attività legislativa. Se la Costituzione contenesse più proibizioni contro la possibilità di legiferare, oggi pressoché illimitata, avremmo sicuramente meno leggi di miglior qualità, conseguendo anche per questa via indiretta i due summenzionati scopi essenziali di una Costituzione liberale. Eccone qualche esempio: "Nessuna legge priverà il cittadino del diritto di scegliere il medico, l'ospedale, la cura, che reputa appropriati"; "Nessuna legge obbligherà i cittadini a versare in qualunque modo quote di reddito e di patrimonio per finalità previdenziali, sanitarie, assistenziali"; "Nessuna imposta diretta sul reddito personale sarà trattenuta alla fonte, ma versata al fisco dal contribuente"; "Nessuna legge riconoscerà i titoli di studio".
Purtroppo sono rimaste inascoltate le immortali parole di Luigi Einaudi, primo Presidente della Repubblica: "La moltitudine odierna delle leggi nuove, il moltiplicarsi quotidiano di migliaia di leggi, decreti, regolamenti, ordini, hanno fatto sì che la parola legge non ha più alcun senso, che la legge è diventata un arbitrio, che la legge non è più una norma generale applicabile in modo duraturo a tutti, ma una regola arbitraria, creata volta per volta a regolare il caso singolo: la legge non è più ordine, certezza di vita, ma disordine, fomento d'incertezza. La virtù dei parlamenti non consiste nel legiferare, ma nel discutere. Discutendo si vede che, nove volte su dieci, le proposte nuove sono erronee, sono riproduzioni di vecchi errori, di vecchie esperienze passate. La discussione ne mette in luce l'inconsistenza e le fa andare a fondo. La virtù dei parlamenti non si misura dal numero delle leggi approvate ma da quello delle proposte di legge abortite lungo il faticoso cammino della pubblica discussione". Eppure, quando il Maestro espresse questi mirabili pensieri, che uno Stato serio scolpirebbe nelle aule parlamentari, la catena di montaggio delle leggi non era nemmeno lontanamente efficiente come adesso. Non esistevano né 1'Unione europea né le regioni, né le comunità montane né le circoscrizioni, né le tante nuove province, che con lo Stato e i comuni oggi riversano ogni giorno su ignari cittadini una mortale colata di regolamentazioni su quasi ogni aspetto della vita umana. Qual è, dal punto di vista liberale, il punto cruciale del nostro sistema di governo? La divisione dei poteri è sfumata. E, come affermava la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, "Le società nelle quali non è assicurata la garanzia dei diritti né determinata la separazione dei poteri, non possiedono affatto una Costituzione". La separazione e limitazione dei poteri era ed è un cardine del costituzionalismo. In Italia il cardine è stato scardinato. In generale può dirsi che i parlamenti nacquero e prosperarono per proteggere gli individui dalla rapacità fiscale dei governi e per rallentare e controllare gli atti normativi ed esecutivi dei governanti. Ma oggi, specie qui da noi, Parlamento e Governo sono un tutt'uno, non solo nelle persone, ma anche nell'indirizzo politico. Questo complesso "parlamento-governo" mi piace chiamarlo "autorità governante", un "monstrum" che fa ed applica le leggi, statuisce l'entrata e la spesa, annulla contratti privati e vanifica sentenze perfino definitive. Dobbiamo quindi proporci di separare nuovamente i poteri che il costituzionalismo cercò di dividere e gli sviluppi dello Stato contemporaneo hanno concentrato in istituzioni formalmente differenti, ma sostanzialmente identiche; distinte, ma unificate. Grazie a questa "autorità governante" lo Stato è diventato padrone di tutto. Ci signoreggia manipolando la nostra libertà e maneggiando i nostri quattrini. Siffatta "autorità governante" ha anche un altro fondamentale difetto. E' onnipotente nel concedere, non nel negare. Perciò la legislazione è degenerata in favoreggiamento di gruppi e individui specifici, mentre tasse e debiti sono cresciuti di pari passo. Ma non abbiamo proceduto commisurando la spesa alle entrate bensì, al contrario, finanziandola contemporaneamente con tributi e deficit. L`"autorità governante" ha finito per diventare la principale dissipatrice della ricchezza nazionale perché, circolarmente, insegue i voti che la inseguono.
Contro questo irrefrenabile. impulso a spendere e spandere che ha consegnato nelle mani dell'"autorità governante" qualcosa più della metà del reddito nazionale (significa che i politici "amministrano" il 50% dei nostri soldi!) bisognerebbe innanzitutto sostituire la parola "mezzi" con la parola "tributi" nell'art. 81 della Costituzione, una norma che così com'è non ha saputo proteggerci dalla finanza allegra.
Una modifica più complessa e risolutiva dovrebbe partire dal limite costituzionale alla spesa pubblica ideato ma non adottato negli Stati Uniti, i quali, sebbene godano della separazione tra Legislativo ed Esecutivo, debbono difendersi anch'essi da parlamentari con le mani bucate. Eccolo, rielaborato alla luce della nostra Costituzione. Il testo potrebbe essere questo: "Le spese totali, ogni anno fiscale, non dovranno aumentare di una percentuale superiore all'incremento percentuale del prodotto nazionale lordo nominale nell'ultimo anno solare terminato prima dell'inizio del detto anno fiscale. Le spese totali includeranno le spese ordinarie e straordinarie, ed escluderanno l'ammortamento del debito pubblico e le spese di emergenza. Quando, per un anno fiscale, le entrate totali eccedano le spese totali, l'eccesso sarà usato per ridurre il debito pubblico finché tale debito sia estinto. In seguito ad una dichiarazione d'emergenza da parte del governo, il Parlamento può autorizzare, con il voto di due terzi d'entrambe le Camere, un ammontare specifico di spese d'emergenza, addizionali rispetto al limite relativo all'anno fiscale corrente. Il limite alla spesa totale può essere modificato per un ammontare specificato con il voto dì tre quarti dei componenti di entrambe le Camere. La modificazione ha valore nell'anno fiscale successivo all'approvazione. Nel caso in cui il Parlamento o il Governo richiedano alle amministrazioni locali attività più ampie o addizionali, le risorse necessarie per compensarne i costi sono reperite dalle amministrazioni stesse. L'applicazione di questo articolo può essere richiesta alla Corte costituzionale da uno o più membri del Parlamento, chiamando in giudizio il Governo o i Presidenti delle Camere, che ne risponderanno anche personalmente, ai sensi dell'articolo 283 del codice penale. La sentenza che ingiunge l'applicazione di questa disposizione non specificherà le particolari spese che devono essere eseguite o ridotte, ma stabilirà le pene appropriate per i responsabili e l'anno fiscale entro il quale dovranno essere modificate le spese". La straordinaria portata di tali norme è di per sé evidente. Richiede una sottolineatura solo il fatto che le violazioni sarebbero sanzionate e i responsabili puniti: una rivoluzione copernicana dopo l'introduzione del principio "niente tasse senza rappresentanza".
Il Parlamento non gode di molte simpatie popolari anche perché possiede la veste ibrida dell'"autorità governante" e dismette il manto regale della vera legge per indossare i frusti panni dell'elemosiniere. Ma quando si distribuiscono i soldi, specie quelli di altri, è inevitabile fomentare invidie, scontento, rancori, in un vortice di richieste mai soddisfatte perché non solo crescenti ma anche impossibili da esaudire. Pertanto Hayek, con Mises e Friedman, la triade di giganti che nel XX Secolo hanno imposto il liberalismo all'attenzione del mondo, ha concepito un'Assemblea legislativa che i cittadini dovrebbero eleggere votando una sola volta nella vita, per esempio a quarantacinque anni. Gli eletti dai quarantacinquenni tra i quarantacinquenni resterebbero in carica quindici anni. Tale Assemblea risulterebbe così composta da persone comprese tra quarantacinque e sessant'anni. Un quindicesimo degli eletti verrebbe sostituito ogni anno. Ad essa dovrebbe essere attribuita una funzione puramente normativa, in senso stretto, cioè la produzione di leggi generali ed astratte. Ad essa cioè spetterebbe il potere esclusivo di mutare il "nomos" fondamentale. Sarebbe impegnata ad articolare e formulare il vero diritto, privato, penale, processuale, tributario. Insieme alla disciplina fondamentale ed uniforme della tassazione, questa Assemblea normativa dovrebbe stabilire anche l'ammontare complessivo dell'entrata, che l'autorità governante" non potrebbe neppure influenzare, ma solo spendere come meglio crede. Il sistema di elezione, la composizione, le funzioni di questa Assemblea la renderebbero radicalmente diversa da ogni altra assemblea parlamentare finora conosciuta. Il metodo di selezione dei "nomoteti" li sottrarrebbe ai principali condizionamenti politici oggi lamentati, anteriori e successivi all'elezione. Costoro non avrebbero nulla da temere o sperare, perché non sarebbero rieleggibili. Inoltre affiderebbe mediamente la normazione a uomini maturi, esperti, affermati. Secondo Hayek, i membri dell'Assemblea normativa potrebbero ricevere, al termine del mandato, svariati incarichi, ad esempio in campo giurisdizionale, come giudici onorari, continuando ad esercitare funzioni grandemente utili alla società. Vorrei aggiungere che, dopo l'istituzione di tale Assemblea, una delle Camere potrebbe essere soppressa, concentrando nell'altra Camera, la meno numerosa, gli attuali poteri parlamentari, da esercitarsi insieme al Governo, come accade oggi, salvi gli adattamenti del caso e le modifiche di dettaglio.
Si tratta di una grande idea, originale, profonda, risolutiva. Perciò richiederà anni per farsi strada. Comunque, quale che ne sarà la sorte, resta il fatto che essa rappresenta l'unica innovazione che il costituzionalismo ha offerto da più di un secolo per riparare i guasti della confusione dei poteri e della degenerazione della legge.
Io non auspico di limitare la democrazia nel senso di ridurre il potere del popolo sulle autorità supreme o di sottrarre al popolo il diritto inalienabile di deporre i governanti. Io non discuto il sistema rappresentativo. Biasimo il suo cattivo funzionamento e l'inerzia degli irresponsabili che additano la via ma non intraprendono il cammino. Tento d'impedire che prevalga la democrazia illimitata. Cerco di favorire una nuova nascita della libertà sotto la legge. E che, con le celebri parole di Lincoln a Gettysburg '`il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra."
Come piccola coda, mi piace riportare alcune citazioni (*) che dimostrano molto bene la vera natura del costituzionalismo (stavo per dimenticarlo: costituzionalismo e liberalismo sono la stessa cosa; quelli che aggettivano il termine costituzionalismo, per esempio: fascista, comunista, nazista, semplicemente sbagliano), che scaturisce dalla sua specifica antropologia intrisa di pessimismo e diffidenza verso gli uomini investiti di potere. Il potere è sempre nelle mani di persone in carne ed ossa. Pertanto dobbiamo evitare di plasmare le istituzioni come se dovessero essere, immancabilmente, affidate in buone mani. I governanti onesti, capaci, virtuosi non mancano. Le generalizzazioni negative sono infondate. Tuttavia, per la dottrina liberale, le istituzioni buone sono solo quelle congegnate in modo da impedire ai cattivi di nuocere. La Costituzione italiana, purtroppo, benché emanata dopo una disastrosa dittatura "paratotalitaria", che avrebbe dovuto mettere in guardia i Costituenti, sembra poco influenzata da tale antropologia quanto piuttosto imbevuta di fiducia e ottimismo verso i pubblici governanti, ai quali, con ingiustificabile generosità, concede carta bianca, quasi al completo, e mani libere, quasi del tutto. Machiavelli afferma: "E' necessario, a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei". David Hume spiega da par suo: "Gli scrittori politici hanno stabilito come principio che nell'escogitare qualsiasi sistema di governo, e nel fissare i diversi controlli e comandi della costituzione, ogni uomo dovrebbe essere presunto alla stregua di un delinquente che, in tutte le sue azioni, non ha nessun altro scopo all'infuori del suo tornaconto personale. Facendo leva sul suo egoismo noi dobbiamo governarlo e, per mezzo di tale passione, farlo cooperare al pubblico bene, nonostante la sua insaziabile avidità ed ambizione. Senza questo, sostengono i suddetti pensatori, noi ci vanteremmo invano dei vantaggi di qualsiasi costituzione e finiremmo con il concludere che non abbiamo nessuna sicurezza per le nostre libertà e proprietà all'infuori della buona volontà dei nostri governanti. Vale a dire nessuna garanzia in assoluto".
Leopardi dichiara: "Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene e di vili contro i generosi".
James Madison, forse il principale artefice della Costituzione americana, scrive: "E' possibile una riflessione sulla natura umana cioè che tali congegni dovrebbero essere necessari per controllare gli abusi del governo. Ma cos'è il governo stesso?
Qual è la più grande di tutte le riflessioni sull'umana natura? Se le persone fossero angeli, nessun governo sarebbe necessario. Se fossero gli angeli a governare gli esseri umani, sul governo non sarebbero necessari né controlli interni né esterni. Nel disegnare un governo formato da uomini che amministrano altri uomini, la grande difficoltà consiste in questo: tu devi, innanzitutto, mettere in grado il governo di controllare i governati e, in secondo luogo, obbligarlo a controllare se stesso. Una dipendenza dal popolo è, senza dubbio, il controllo essenziale sul governo; ma l'esperienza ha insegnato al genere umano che sono necessarie ulteriori precauzioni".
Richard Stevens afferma: "Forse la straordinaria corda vibrante della Costituzione americana è che nessuno (corsivo del testo, n.d.r.) è adatto a governare, né un re o i giudici o i preti o gli onesti apparenti o i sedicenti gruppi per l'interesse pubblico, né chiunque altro. Siamo tutti esseri umani, con le passioni e i difetti comuni ad ogni uomo. Dobbiamo governarci da soli e dobbiamo farlo a dispetto di tali passioni e difetti. In un modo o nell'altro. Ogni costituzione non può fare altro che aiutarci ad essere migliori quanto possibile. Questo è lo scopo della Costituzione degli Stati Uniti. E il suo relativo successo poggia sulla nostra venerazione e sulla nostra stessa stretta osservanza. Essa è tutto ciò che si frappone tra noi e la crudeltà e la follia di cui noi stessi, proprio tutti, siamo capaci".
Sant'Agostino sentenzia: "Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia? Latrocinia sunt regna et piratarum infestatio."
Perpetrati da pubbliche autorità oppure da privati cittadini, per difenderci da tali latrocìni e scorrerie nacque e prosperò il costituzionalismo, e noi abbiamo il diritto di pretendere la Costituzione liberale che manca all'Italia.
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(*) Le fonti delle seguenti citazioni sono indicate nella mia "Prefazione" a Thomas Paine, "Senso Comune", Liberilibri, Macerata, 2005, pag. XXIX. Altre citazioni sono tratte dal mio pamphlet "Orazione per la Repubblica (una critica della Costituzione italiana)", Liberilibri, Macerata, seconda edizione, 2001 e dai miei saggi: "La democrazia illiberale (un memorandum sull'Italia del 1984)", Tipografia della Pace, Roma, 1984; "Noterelle sul diritto e la giustizia", in "Diritto e società", Cedam, Padova, 1987, n. 4.
Pietro Di Muccio de Quattro è nato a Vairano Patenora (Caserta) il 15 luglio 1946. Ha conseguito, con lode, all'Università "L,a Sapienza" di Roma, le lauree in Giurisprudenza (1968) e in Scienze Politiche (1988). Nella stessa Università ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia delle Dottrine e delle Istituzioni Politiche (1988) ed ha insegnato Diritto Parlamentare. Già Direttore del Senato della Repubblica e Deputato al Parlamento. È autore di innumerevoli saggi ed articoli sulla Costituzione.
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