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Il tamburino sardo non è solo l’eroe di deamicisiana memoria, ammesso che qualcuno se ne ricordi.
Si è incarnato nel moro ribelle, stanco, stufo, arcistufo della posizione statica del vessillo e della compagnia di quegli altri tre personaggi condannati alla siesta perenne, dall’origine fino alla fine dei giorni. Ed è saltato giù, ha recuperato il tamburo, deciso a far sentire il suo rullio primitivo, rivendicando fino in fondo, in questi tempi difficili, la sua negritudine ed il diritto ad essere libero.
Degli altri, restati lassù, attaccati al vessillo non gliene frega un granché, sia che si decidano a seguirlo, ma la cosa è molto improbabile, sia che gradiscano ancora ammuffire nelle parate ufficiali, dove le idee, coniugandosi con le stellette, tanto più si impoveriscono quanto più si alzano in grado.
Il suo tamburo trasmette un messaggio semplicissimo, che proclama il primato della cultura sulla politica.
In verità spera soltanto di disturbare tutti coloro che, in sua presenza, quando era incollato a quella stupida stoffa, schiacciavano dolci sonnellini pomeridiani su poltrone straordinariamente comode, senza immaginare che poco più in alto, attaccato alla parete, lui, il moro si rodesse dentro, e si incazzasse a tal punto da trovare la forza di balzar giù per far rullare il tamburo sotto le loro finestre.