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Rubrica Lastrico solare
IL CONFLITTO NELLA STRISCIA DI GAZA:
RAGIONI POLITICHE E SCENARI POSSIBILI
(Enzo Marongiu)
Tentiamo un'analisi del conflitto che si è svolto nella Striscia di Gaza nel corso delle ultime tre settimane al fine di individuare le ragioni che hanno spinto lo Stato israeliano ad intraprendere nuove operazioni militari nei territori evacuati nel 1994 contro la volontà della propria stessa popolazione.
In seguito al lancio di missili Quassam ad opera di Hamas durato vari giorni, Israele ha messo in opera una serie di bombardamenti “mirati” per colpire i santuari dell'organizzazione radicale palestinese e, in seguito, una vasta operazione di terra che ha portato le milizie israeliane a penetrare fino a Gaza City. Nonostante il tentativo di discriminare tra obiettivi politici e civili, il conto delle vittime tra la popolazione civile si è subito rivelato alto, superando le 1300 unità, di cui una forte componente è costituita da bambini. Inoltre, sono stati colpiti alcuni contingenti ed edifici delle Nazioni Unite il cui personale, non ritenendo esistenti le condizioni minime di sicurezza per operare, ha abbandonato l'area, elevando il rischio di una catastrofe umanitaria.
Prima vittima del conflitto è stata dunque la popolazione di Gaza, il cui ruolo deve essere tenuto distinto ai fini dell'analisi da quello delle organizzazioni politiche palestinesi di Hamas e Fatah. La prima, attualmente al potere, si è distinta per il cinismo estremo che ha guidato la sua azione: con un ininterrotto lancio di missili è riuscita nel deliberato scopo di provocare la reazione del vicino. Dotata di una “testa politica” e di un separato apparato militare – avvezzo all'utilizzo di tecniche terroriste e spesso in contrasto con gli stessi dirigenti politici – l'organizzazione è tuttavia profondamente radicata sul territorio e raccoglie il consenso di una vasta parte della popolazione palestinese; per questa ragione, nonostante l'estremismo guerrafondaio, rimane di fatto un interlocutore necessario a livello internazionale.
Nonostante, in punta di diritto internazionale, l'uso della forza armata da parte israeliana configuri una fattispecie lecita sotto il profilo della necessità e della proporzionalità, le operazioni militari mancano di uno scopo sufficientemente preciso e definito: da un lato, una completa distruzione di Hamas non è né praticabile né auspicabile in mancanza di una leadership alternativa. Impossibile pare d'altronde al momento un ritorno al potere di Fatah, poiché non più sufficientemente rappresentativa del popolo palestinese dopo la dura sconfitta subita ad opera dell'organizzazione rivale alle elezioni del 2006 e nel breve conflitto civile dell'anno successivo. Un tentativo di “rilanciare” il ruolo del leader Abu Mazen al fine di contrastare l'estremismo di Hamas è parte della strategia israeliana, ma la riuscita dell'operazione è molto dubbia.
Infine, una stabile rioccupazione di Gaza, è impensabile: una tale azione rappresenterebbe infatti la definitiva sconfitta della politica “territori contro sicurezza”, un regresso di quasi un quindicennio nella strategia israeliana ed una ripresa dello stillicidio di morti e attentati: una prospettiva inaccettabile per il Governo di Tel Aviv. In mancanza di alternative, dunque, l'esercito israeliano tenta di ridimensionare il potenziale offensivo di Hamas; operazioni militari il cui scopo è limitato ad “indebolire l'avversario”, tuttavia, rischiano di rivelarsi inutili: in mancanza di un controllo effettivo sul territorio di Gaza, infatti, la ricostruzione dell'arsenale e delle infrastrutture di cui si avvale Hamas sarebbe possibile in un lasso di tempo piuttosto breve, mentre i costi politici, materiali e presso l'opinione pubblica per lo stato ebraico sono particolarmente alti.
Analizzando gli altri attori operanti nella regione medio-orientale, un ruolo centrale è giocato dalla Repubblica Islamica dell'Iran, che in questa crisi ha supportato attivamente gli estremisti palestinesi e ne ha armato la mano. Teheran deve sfruttare il momento attuale, in cui si approssimano le elezioni israeliane e l'avvicendamento alla Casa Bianca, al fine di accrescere la propria potenza nella regione, a scapito in particolare dell'Islam sunnita. Il fronte di paesi e gruppi politici avversi ad Israele in Medio Oriente è infatti tutt'altro che compatto ed unitario.
Per posizione geografica e potenza, l'Egitto spicca come necessario interlocutore per risolvere la crisi, e l'Europa ha esplicitamente tentato di rafforzarne il ruolo come mediatore. Il Cairo tuttavia è tutt'altro che un arbitro super-partes per ciò che concerne l'assetto dei territori coinvolti: storicamente l'Egitto si dibatte tra l'occupazione della Striscia e l'incapacità di stabilizzarla; la popolazione palestinese, in termini di dimensioni, di crescita demografica nonché per l'esistenza di gruppi militarizzati, costituisce una seria minaccia alla stabilità di tutti gli Stati vicini. Pur riconoscendo le ragioni della causa palestinese, l'Egitto non ha mai messo in opera una politica di accettazione ed integrazione dei palestinesi, né ha permesso durante la crisi presente di allentare i controlli alla frontiera al fine di alleviare la crisi umanitaria.
A Sharm el Sheikh si è svolto un vertice internazionale che, se da un lato ha ribadito il ruolo centrale del Paese organizzatore, ha d'altra parte messo in luce l'estrema frammentazione politica che caratterizza in questo momento lo scenario internazionale. Alla presenza di Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna, Italia, Repubblica Ceca, Turchia, Giordania, Egitto e Lega Araba, nonché del Segretario Generale delle Nazioni Unite, si è contrapposta la clamorosa assenza di Russia, Stati Uniti oltre che dei rappresentanti israeliano e palestinese. Nei contenuti, il summit si è limitato a dare una investitura multilaterale alla decisione di tregua già decisa unilateralmente da Israele e da Gaza. Nessun accordo formale è stato sottoscritto, ed i diretti interessati hanno reso esplicita la propria indisponibilità ad ospitare presenza di contingenti stranieri sul proprio territorio.
Sul “fronte occidentale”, Stati Uniti ed Europa hanno giocato ruoli dissimili nel corso dell'intera crisi. L'Unione europea ha ancora una volta dimostrato la propria inconsistenza non riuscendo ad adottare una posizione unitaria: la divergenza si è questa volta verificata tra la posizione della Repubblica Ceca, Paese che attualmente presiede il Consiglio, e la diplomazia nazionale francese, impegnata ad imporsi come riferimento occidentale per i paesi arabi moderati. L'assenza del Presidente della Commissione europea Barroso al vertice di Sharm el Sheikh non ha fatto altro che confermare l'inesistenza dell'Europa come soggetto politico unitario.
Gli Stati Uniti hanno mantenuto un atteggiamento inusualmente ambiguo anche a causa della contingente transizione alla Casa Bianca: gli USA hanno permesso in seno al Consiglio di Sicurezza l'adozione della risoluzione 1860, sgradita a Tel Aviv in quanto prevede l'immediato cessate-il-fuoco, l'apertura di corridoi umanitari ed il ritiro delle truppe israeliane; inoltre, sia l'amministrazione uscente che la nuova hanno espresso velata disapprovazione nei confronti dell'azione israeliana; atteggiamento questo che è stato percepito in Israele come un vero e proprio tradimento.
Le ragioni sono da trovare probabilmente in una divergenza di fondo nella strategia di lungo periodo dei due Paesi: pur confermando come pilastro irrinunciabile l'alleanza con lo Stato ebraico, Washington deve sottrarsi ad un mera identificazione con esso, recuperando così quel ruolo centrale in Medio Oriente che gli permetterebbe di negoziare con tutti gli attori regionali, moltiplicando le opzioni della diplomazia americana. Nella stessa linea, l'Amministrazione Bush ha già bloccato il progetto israeliano di un attacco mirato contro i presunti siti nucleari di Teheran, confermando che sul fondamentale problema dell'atomica iraniana la Casa Bianca è alla ricerca di un consenso multilaterale.
Tornando agli eventi attuali, ribadiamo che prima vittima di questo complesso quadro politico è stata la popolazione civile, in particolare quella residente nella Striscia di Gaza; la soluzione del conflitto tuttavia si pone su un piano diverso, quello “freddo” delle relazioni internazionali.
Precondizione perché alle armi possa subentrare la diplomazia è che la sicurezza di Israele sia garantita in maniera certa ed indubitabile. A partire dai primi anni 70, essa è stata legata alla schiacciante superiorità militare rispetto a tutti gli altri attori regionali: la potenza militare israeliana dev'essere tale che tutti i vicini Paesi vicini non possano ragionevolmente pensare di attaccare Israele, neanche unendo le forze. Tale punto non può essere rimesso in discussione: una eventuale riduzione degli armamenti in futuro potrebbe solo costituire conseguenza della raggiunta pace, non uno strumento per ottenerla.
Sebbene rimanga preponderante, la potenza israeliana è stata seriamente messa in dubbio dopo l'abbandono di Gaza e dal conflitto del luglio 2006 contro gli Hezbollah libanesi: nonostante l'ampio impiego della forza armata, infatti, Tel Aviv è uscita sostanzialmente sconfitta, non riuscendo a neutralizzare i miliziani; in un conflitto asimmetrico, il soggetto statale è sconfitto fin quando permanga la condizione di conflittualità. Era dunque necessario per Israele rispondere in modo deciso agli attacchi di Hamas, e di ripristinare la propria credibilità militare in modo indiscutibile. In caso contrario, nuove e più gravi “provocazioni” diventerebbero inevitabili, al punto da mettere a repentaglio la sicurezza, ed in casi estremi la stessa esistenza di Israele. Come già detto, tuttavia, la riuscita delle operazioni israeliane è pesantemente condizionata dall'attuale assenza di un'alternativa ad Hamas.
L'apertura di un canale di dialogo ufficiale tra lo Stato ebraico e gli attuali rappresentanti palestinesi incontra poi da ambedue le parti ragioni sostanziali di impedimento: da un lato, Hamas si pone esplicitamente come scopo principale di distruggere Israele, perciò la diplomazia non costituisce uno strumento accettabile per i miliziani; la divaricazione tra le componenti militari estremiste e le “teste politiche” dell'organizzazione è uno degli effetti del conflitto auspicati dallo Stato Maggiore israeliano. Dall'altro lato, Israele non può riconoscere Hamas come controparte di un negoziato, sia in ragione delle idee estremiste propugnate, sia per la sua natura non-statuale; anche dopo la vittoria elettorale, Hamas non è stata in grado di dar vita ad un'organizzazione sociale ed istituzionale, né di elaborare un progetto per lo sviluppo: le risorse disponibili sono state impiegate in larga parte per il riarmo ed in opere di assistenziali, smantellando tuttavia quell'embrione minimale di Stato che era nato dopo il 1994 sotto la guida l'Autorità nazionale palestinese.
Ed è proprio nella natura degli enti politici interessati che, nel lungo periodo, va ricercata una soluzione al problema israelo-palestinese: è necessario riportare al centro gli Stati nazionali, come unici soggetti in grado di garantire un ordine duraturo e stabile nella regione. Solo ove i Governi percepiscano i gruppi politici militarizzati che abbondano nella regione – e primi fra tutti Hamas e Hezbollah – come una minaccia alla loro stessa stabilità interna, è possibile aprire un negoziato sostanziale. Un esempio positivo è costituito dall'Egitto: sebbene i rispettivi interessi nazionali spesso divergano, alla pari di Israele il Cairo ha percepito la presenza di Hamas come elemento di instabilità regionale, e ne contrasta le componenti militari.
Sul piano delle relazioni internazionali, dunque, è lo Stato - ente sovrano avente il legittimo monopolio sull'uso della forza interna ed internazionale e, in quanto tale, portatore di un ordine stabile – che deve tornare al centro della questione israelo-palestinese a scapito di gruppi politici e militari a livello sub-statale. Tale responsabilità investe dunque in primo luogo i paesi avversi ad Israele.
(Sara)
Bravo Enzo! Sintetico ed esauriente il quadro della situazione, ottima la conclusione,sulla quale mi trovi perfettamente d'accordo!
(Luca)
Complimenti Enzo, ottimo articolo!
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