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Rubrica Salotto buono
Identità e memoria. La lingua come asse portante di una cultura. Il caso Sardegna.
(Dino Manca)
Il contesto sovranazionale è oggi assai diverso da quelli del passato e prevede il riconoscimento del valore delle lingue e delle culture, dalle lingue e culture europee alle lingue e culture del mondo.
Nel 1981 la Comunità europea ha sancito l'attenzione che la scuola e quindi l'intera società civile devono dedicare alle diverse lingue e alle diverse culture regionali (Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, 9,11,81). Alla base delle rivendicazioni relative c'è un fondamento psicolinguistico e generalmente psicologico assai importante che riguarda appunto la formazione della personalità di ciascun individuo. Sulla base di queste considerazioni linguistiche dovrà essere ripensata la concezione stessa della politica educativa nelle singole comunità nazionali.
La legittimazione di un mondo plurietnico e multirazziale passa attraverso la valorizzazione della cultura della differenza e acquista un senso nel riconoscimento della propria appartenenza etnica. Se non si riconosce se stessi come parte di una pluralità non si può parlare di cultura della diversità e perciò di mondo multietnico e multiculturale. Col termine etnia (éthnos = popolo), si intende definire una collettività distinta da altre, che ha sperimentato per molte generazioni una comunanza di territorio, di lingua, di storia, di cultura, intesa come complesso di norme, interiorizzate e non, sistema di segni, di associazioni, di tecniche di adattamento, di forme di organizzazione e strutture comunitarie, di modi di vita e comportamento, di convenzioni sociali, di costumi e credenze, di comunicazione, di orizzonti simbolici, di abiti e contenuti mentali, di saperi e voleri condivisi.
L'individuo è «un organismo vivente capace di pensare, di sentire e di agire indipendentemente, ma limitato nella sua indipendenza e profondamente modificato nelle sue reazioni dal contatto con la società e con la cultura in cui si sviluppa» (Linton). Egli vive in un gruppo le cui credenze, conoscenze, valori, comportamenti sono dati prima che egli nasca. Ogni uomo nasce in un mondo definito da modelli culturali preesistenti (eredità sociale) non trasmessi biologicamente ma attraverso i processi educativi e partecipativi (nella trasmissione la cultura non solo si conserva ma si trasforma). Parimenti l'individuo interviene alla conservazione, trasmissione, elaborazione e innovazione della cultura della quale è soggetto investito e partecipe. L'uomo è dunque aristotelicamente un animale sociale; anzi meglio, un animale culturale. L'identità culturale di una società «si identifica con l'organizzazione del patrimonio mentale storico dei suoi membri» (Musio). Identità mentale e sociale dunque come modo condiviso di concepire e vivere il mondo e la vita, di rapportarsi col proprio ambiente e di relazionarsi col proprio gruppo in base ad un apparato mentale di norme interiorizzate. Identità come modalità d'essere e sentimento d'appartenenza a una comunità di persone culturalmente differenziate ed insediate in un preciso spazio storico. Identità come bisogno e sentimento dell'altro (ricerca dell'alterità come prova di un'identità). Identità come memoria individuale e collettiva, come io-successivi che si muovono tra presente, passato e futuro e consapevolezza di essere partecipanti e partecipati, spettatori e protagonisti, vittime ed eroi, testimoni ed eredi del processo storico-esperienziale di una società determinata; consapevolezza di fare in qualche modo parte di una sorta di destino collettivo. Identità come luogo e ambiente conosciuto, come rapporto tra comunità ed ecosistema, come spazio comunicativo, significativo e simbolico, all'interno del quale il soggetto si struttura sviluppando le sue conoscenze e le sue capacità d'orientamento. Identità come automodello, come immagine e mito di se stessi. Identità come innovazione e come carattere aperto e dinamico nel tempo e nello spazio, come complesso di elementi in continuo movimento, come differenza e pluralità di voci, come capacità tuttavia di orientare e governare democraticamente il mutamento, senza perdere se stessi e la propria eredità sociale che è memoria individuale e collettiva. Identità infine come testo-cultura e come lingua, veicolo di tutti i codici che formano e modellizzano tale cultura.
Lotman ha scritto che «risulta necessario non solo aumentare le qualità di comunicazione nelle lingue esistenti, ma anche aumentare continuamente la quantità di lingue in cui si possono tradurre i torrenti d'informazione, rendendoli dominio degli uomini. L'umanità ha bisogno di un mezzo più solido per conservare l'informazione, di quanto non lo sia l'aumento fino all'infinito delle comunicazione in una lingua sola». Con Lotman, arriviamo dunque alla spinosa ed oltremodo dibattuta questione della lingua. Abbiamo visto come in una cultura i sistemi e i codici interagiscano e come il codice lingua sia il veicolo di tutti i codici. Gli oggetti, le immagini, i colori, le organizzazioni spaziali e sociali, le attitudini comportamentali, le azioni, significano grazie alla lingua. Non c'è senso che diamo al mondo che non sia nominato, e il mondo dei significati non è altro che quello del linguaggio. Una lingua non è solamente un mero strumento tecnico, atto a comunicare. Ogni lingua è altresì strumento per selezionare e categorizzare l'esperienza. Strumento capace di suscitare emozioni e di determinare effetti e universi psichici. Il linguaggio non è «un accompagnamento esteriore, esso sta nel più profondo della mente umana, tesoro di memorie ereditate dall'individuo e dal gruppo, coscienza vigile che ricorda e ammonisce» (Hjelmslev). Il linguaggio ha un lato individuale e uno sociale, entrambi inestricabilmente legati fra loro. Senza langue e competenza linguistica l'individuo non potrebbe comunicare. Ogni lingua traccia le sue particolari suddivisioni all'interno della «massa del pensiero» amorfa, e dà rilievo in essa a fattori diversi in disposizioni diverse, pone centri di gravità in luoghi diversi e dà loro enfasi diverse. La lingua è perciò il fondamento ultimo delle società umane: la lingua è cultura. È lo strumento attraverso il quale noi formiamo pensieri, stati d'animo, aspirazioni, azioni; esso è il segno distintivo della personalità individuale e collettiva. La lingua ha funzioni creative nel senso che, in quanto classificazione e disposizione del flusso esperienziale, essa si traduce in orientamento del mondo.
Secondo Whorf, esponente del relativismo linguistico, il nostro modo di percepire e pensare il mondo sarebbe fortemente influenzato dalla struttura linguistica che ci è peculiare. Il pensiero non sarebbe per lui indipendente dalla natura delle lingue particolari. La formulazione delle idee non prescinderebbe dalla sua espressione. La conoscenza logica del mondo è possibile soltanto riconoscendo che le proposizioni che descrivono il mondo assumono significato soltanto a seconda dell'uso del linguaggio che ogni comunità fa in quanto lo usa.
Selezioniamo la natura, la organizziamo in concetti e le diamo determinati significati, in larga misura perché siamo partecipi di un accordo per organizzarla in questo modo, un accordo che vige in tutta la nostra comunità linguistica ed è codificato nelle configurazione della nostra lingua. È la lingua che dà forma alle idee. Noi suddividiamo e organizziamo il dispiegarsi e il fluire degli eventi nel modo in cui lo facciamo, soprattutto perché attraverso la nostra lingua madre abbiamo convenuto di fare così e non perché la natura stessa si offra agli occhi di tutti suddivisa esattamente a quel modo. Per chi ha appreso la lingua sarda come lingua madre, l'incontro con la lingua italiana, determina rotture sul campo della combinazione e della selezione, sul campo del significante e del significato, sul campo infine semantico. Il fatto che la conoscenza dell'italiano o dell'inglese arricchisca culturalmente il ragazzo è fuori dubbio; come del resto lo spagnolo, il francese, il tedesco e qualsiasi altro idioma. Ma se tale processo di ampliamento dei codici avviene sulla "pelle" della lingua madre viene meno il postulato primo. Credere che la lingua sarda sottragga qualcosa alle altre è una nostra atavica e gravissima inibizione, probabilmente retaggio di una cultura subalterna e storicamente perdente. A una lingua tagliata corrisponde sempre una cultura deprivata, tacitata e umiliata.
Hegel, nella Fenomelogia dello spirito, scrive che «si diventa servi quando si rinuncia alla lotta per il riconoscimento di se stessi nel complesso quadro della natura». Molti hanno creduto che autodefinirsi cittadini del mondo, secondo una sorta di identità ipertrofica e astratto universalismo, avrebbe risolto il problema del rapporto con le proprie radici. Come se il mondo fosse davvero riducibile ad un unicum omogeneo e indistinto, o come se il soggetto sia un fondamento identico a sé cui riportare tutto l'universo-mondo. Altri, in modo altrettanto provinciale, lo hanno annullato nel resistenzialismo fine a se stesso, nella chiusura sterile e settaria. In verità non credo che noi sardi, non possediamo un'identità e che qualsiasi tentativo di riesumarla e valorizzarla sia un'operazione antistorica e controproducente. Penso piuttosto, che la nostra condizione di straniamento, la nostra ricerca dell'altro, il nostro (a volte patetico) collocarci altrove in modo ossessivo sia la più eclatante dimostrazione proprio dell'esistenza di una nostra identità. Essa è piuttosto in difficoltà, in crisi, ma esiste. E anche nell'alterità e nella ricerca dell'altro che disveliamo noi stessi. Il luogo, come entità storica e culturale, oltre che geografica, esiste. Siamo noi che lo neghiamo. O forse è stato fatto di tutto perché noi lo negassimo. Negarlo non ci aiuta a capire. Fuggire non risolve il problema. La nostra depressione si chiama atopia. Il nostro continuo e schizofrenico de-situarci alla ricerca del luogo-cosmo ci ha ridotto come fuscelli sbalestrati dalla corrente della vita e dal vento della Storia. Una Storia scritta e orientata da altri. Proprio «come un individuo che abbia perduto la memoria non è più normale, così è inconcepibile l'idea che una società, in un punto qualsiasi della propria storia, possa emanciparsi dalla cultura passata» (Kluckhohn).
Siamo dunque sardi senza memoria. Ma un uomo senza memoria è come una barca senza bussola: va fuori rotta, perde il senno, impazzisce. Senza memoria infatti vengono meno i legami con le proprie radici, e senza radici si è alla mercé di chiunque. Attraverso la memoria ricostruisci la tua identità personale e dai un fondamento alla coscienza di te. Senza memoria, disperdi il tuo «Io» ti destrutturi e vivi drammaticamente sospeso fra ordine e caos, fra pulsioni interne e cogenze esterne. Senza memoria e senza consapevolezza cessi si essere coscienza progettante e vivi il tuo futuro con angoscia e paura.
Si è ormai affermata da qualche tempo la convinzione che la maggiore o minore forza dell'identità che le comunità umane esprimono, dipenda dalla consistenza della trama che unifica e sintetizza il patrimonio culturale di un popolo con la sua distinguibile presenza nel contesto planetario. Identità che orienti gli effetti di ricaduta in differenti aree e settori (scuola, informazione, economia, turismo). In questa prospettiva l'attuale rinascente sensibilità, per essere valorizzata deve essere indirizzata, governata, salvaguardata sia dalla illusoria esterofilia di maniera, sia dell'altrettanto sterile e controproducente contemplazione di matrice apologetica e quasi agiografica di un'arcaica e inesistente purezza autoctona, destinata al neoisolazionismo. No dunque al perpetuarsi dell' identità coloniale eterodiretta e no al nativismo nostalgico, inteso come reinvenzione di una identità statica, ingessata, antistorica, artificiale, legata a una concezione pericolosa ed esclusivista che cerca nel codice genetico la prova della propria e altrui sardità. La Storia - straordinario terreno di verifica per la cultura e la politica e ancorché prevalentemente connotata da invasioni e colonizzazioni più o meno oppressive e violente (la «Storia brutale» di cui parla Le Lannou) - ci dice che noi siamo una fusione di popoli, di razze, di storie diverse. L'identità odierna è il frutto di un processo storico polimorfo e dinamico, che va conosciuto e interpretato affinché non si ricada in vecchi errori. La Sardegna di oggi fa parte della più generale cultura europea e occidentale (materiale, religiosa, politica, giuridica, letteraria, linguistica, artistica) e la sua attuale caratterizzazione è data da elementi tradizionali e non tradizionali che convivono, e dalla compresenza di numerose subculture (cultura urbana, rurale, industriale, agro-pastorale).
Nella nuova scuola dell'autonomia, lì dove si fa più stringente il rapporto fra istituzioni formative e territorio, una riflessione più attenta sul contesto culturale, spesso è venuta a mancare. Ancor di più in una regione come la Sardegna, peculiare e complessa, che conosce ancora moltissimi microcosmi non urbani, antropologicamente connotati, con propria lingua, propri saperi, propri sistemi valoriali, propri reticoli di esclusione e inclusione, proprie leggi e proprie consuetudini difficilmente traducibili attraverso codici e sistemi segnici d'inappartenenza. Non esiste comunicazione senza contesto, così come non esiste metodo educativo al di fuori delle coordinate spazio-temporali e quindi anche ambientali. L'ambiente non è solo un oggetto di cultura, una disciplina da studiare, ma soprattutto una condizione di cultura e di formazione educativa, perché condizione del processo stesso della personalità del soggetto. Una scuola avulsa dal contesto in cui opera, viene meno dunque a uno dei suoi compiti prioritari. L'apprendimento di ogni ragazzo, avvenuto per esperienza direttamente vissuta e sperimentato emozionalmente, si realizza dentro un ben preciso contesto ambientale e si regge, come ogni percorso educativo, sull'imparare a conoscere, a fare ma soprattutto ad essere; ossia sulla capacità di acquisire gli strumenti della comprensione di tale contesto così da essere capaci di agire creativamente nell'ambiente circostante e poter in tal modo costruire una propria identità culturale e umana. Si ritorna al concetto di identità del giovane non disgiunto dal senso di appartenenza ad una comunità inserita storicamente in un territorio.
Da qui dobbiamo ripartire per costruire una terza via dell'identità riferibile a tutti gli abitanti dell'Isola. E da qui, con gradualità, nel rispetto della complessità e di tutte le diversità, dobbiamo ripartire per costruire, da protagonisti e da nuovi artefici, il nostro futuro. Nel quadro della competizione, del libero gioco della cultura e della ricerca, e in vista di una maggiore e più articolata crescita e qualificazione interna dell'identità isolana che sia in grado di proiettarsi verso l'esterno con caratteri peculiari forti, occorre puntare in prima istanza, a fare anche dei sardi i produttori, i destinatari e i consumatori privilegiati del proprio patrimonio culturale e ambientale. Si deve in altri termini riattivare il circuito interno della memoria e della comunicazione che promuova e sostenga la crescita di una consapevolezza sempre maggiore di sé, della propria peculiarità, della propria lingua e della propria Storia. Si deve sviluppare il circuito e il mercato interno della cultura e della natura sarda promuovendo la diffusione orizzontale di quegli aspetti che ci fanno, nella nostra originalità, mediterranei, europei, universali.
Il problema dunque è come la cultura di un gruppo o di un popolo, sia capace, nel libero confronto, di orientare e trasmettere il mutamento della propria eredità sociale, attraverso le proprie istituzioni, politiche e culturali, formative e informative, attraverso il proprio grado di autodeterminazione e di consapevolezza storica, ma soprattutto attraverso il proprio prestigio che da questi ne discende. Come sardi possiamo essere capaci di dialogare col mondo solo se riusciamo a produrre cultura, inserendoci, con una nostra peculiarità ed identità (moderna, plurilinguistica e policentrica), nei nuovi circuiti. Identità intesa non come autoemarginazione, ma come capacità di integrarci col mondo a partire da noi stessi.
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