Il Tamburino Sardo


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Intervista a Pasella

Rubrica Anticamera

Intervista a Ugo Pasella
Registrata il 7/8/2009
A cura di Giuseppe Serra e Giampiero Muroni
 
Ugo Pasella è nato a Sassari il 7 maggio 1907 in via Lamarmora n.34 e ha da poco compiuto 102 anni.
Suo padre, Ignazio, era un colonnello dell’esercito a Livorno; suo zio, Umberto Pasella, sindacalista rivoluzionario, partecipò alla fondazione dei fasci di combattimento con Benito Mussolini.
Ugo si sposò con Maria Taras nella parrocchia di San Donato, a Sassari, il 7 dicembre 1941.
 
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GM: La mano, quando l’ha persa?
 
UP: Il 18 marzo del ’43.
 
GS Come ha vissuto gli anni del fascismo? È stato un militante o un semplice simpatizzante?
 
UP: Ero iscritto all’avanguardia allora; dal giugno del ’22. Poi ho avuto l’onorificenza “Sciarpa Littorio-Marcia su Roma”
 
GM: Era molto giovane allora, quanti anni aveva? 15 ?
 
UP: Sì, 15. Non è che io sia stato a Roma, ma a tutti quelli che erano stati iscritti al Fascio, prima del 28 ottobre del ’22, hanno conferito il diploma di “Marcia su Roma”. Io mi sono iscritto subito.
 
GM: Che lavoro faceva?
 
UP: Ero studente, poi sono stato assunto alla Cassa mutua dei lavoratori dell’agricoltura
 
GM: Quella che poi è diventato INAM.
 
UP: Sì, quello che poi è diventato l’INAM.
Fino allo scoppio della guerra ho condotto una vita tranquilla, ma ho sempre creduto nei valori del fascismo.
Sono stato richiamato, sempre a Cagliari, a iniziare dal ’36, nel Genio, perché avevo frequentato la Scuola pratica di agricoltura, e mi dicevo: “Mi manderanno in Africa”; e niente. Invece, siccome ci hanno spiegato che noi, quelli del Genio, eravamo un reparto di servizi, ci facevano conoscere nuovi apparecchi, nuove tecniche di trasmissione; ci tenevano un mesetto, ci facevano fare un campo estivo, e ci mandavano a casa.
Poi sono stato richiamato nel ’38. Più ci si avvicinava al ’40 e più i richiami si susseguivano: nel ’39, nel ’40, tutti gli anni un richiamo che si allungava sempre di più. Un mese, poi due mesi, finché, nel ’40, ci fu quello definitivo. A un certo punto, pareva che la guerra non si facesse, allora ci hanno dato un lungo permesso, una lunga licenza, e io ne ho approfittato per sposarmi. Ero sposato da 15 o 20 giorni e mi è arrivata la cartolina precetto e son dovuto ripartire all’inizio del ’41. Da allora non mi hanno più mollato. Diventai ufficiale, sottotenente dei guastatori, nella X Compagnia Guastatori del Genio.
 
GS: Ma come mai si è arruolato nei Guastatori? È un reparto d’elite.
 
UP: Ero nel XV Genio, a Cagliari e un giorno ho visto un soldato con un fregio strano, e gli ho chiesto: “Che fregio è?” “Dei Guastatori”. “E cosa fanno?” “ I Guastatori”. Non mi diceva, non mi spiegava niente. Dopo un paio di giorni è arrivata una circolare al Comando di Compagnia che chiedeva volontari per andare nei Guastatori, e ho fatto domanda. Sono partito con altri venti soldati. Ero sposato appena da un mese. Quindi sono partito nel ’41.
[Mario] Ferrari; allora era comandante [colonnello, organizzatore della Scuola Guastatori di Banne] del Genio a Banne. Il corso, però, lo avevamo iniziato a Ronchi dei Legionari [in provincia di Gorizia], dove c’era il XXX Battaglione Guastatori Alpini, che poi è andato in Russia, da lì ci hanno trasferito a Banne, dove ho completato il corso e ho conosciuto Paolo Caccia Dominioni. In seguito hanno formato questa X Compagnia Guastatori che doveva, secondo le indicazioni dello Stato Maggiore, partecipare allo sbarco a Malta e costituire una testa di ponte. Così ci trasferirono in Toscana per addestrarci allo sbarco, cosa che facevamo tutte le notti. A Livorno, a Piombino, a Viareggio, dove, il 18 marzo 1943, durante una esercitazione, persi la mano destra. Potevo a questo punto ottenere il congedo illimitato, ma non me la sentii di abbandonare i compagni e rimasi.
 
GS: Che tipo di esercitazioni facevate?
 
UP: Le esercitazioni che facevamo erano micidiali, un ragazzo è morto, altri rimasero feriti, tanto che il nostro comandante putativo, che era un colonnello dei granatieri, ci vietò di fare esercitazioni perché l’ospedale era sempre pieno di feriti. Per noi, però, non fare esercitazioni era come morire e allora il nostro comandante di compagnia ha fatto di tutto e ci siamo trasferiti. Da Piombino siamo andati all’Isola d’Elba, e poi a Viareggio.
 
GS: L’incidente, com’è capitato?
 
UP: Avevamo delle mine, dei catorci di mine con la capocchia fosforosa; bisognava lanciarle all’ultimo momento… ho sbagliato pochi secondi e m’è partita la mano.
 
GM: dov’era l’8 settembre?
 
UP: L’8 settembre mi sorprese in Toscana. Eravamo aggregati come Compagnia indipendente al Quinto Corpo d’Armata che era in Toscana, comandata dal … non mi ricordo il nome del generale, comunque, dopo l’8 settembre, così abbiamo saputo, questo generale è andato a rifugiarsi in un convento. E noi siamo stati lì, aspettando ordini. Alla fine dopo il 9 o il 10 settembre la X Compagnia si è sciolta. C’era mia moglie con me, perché era venuta a trovarmi a Viareggio quando io avevo perso il braccio, e allo stesso tempo per farmi conoscere il primo figlio.
Dopo l’8 settembre ho saputo che a La Spezia c’era il principe Borghese, e che a Pavia, il colonnello Mario Ferrari aveva chiamato tutti i guastatori che volevano continuare a combattere. Ferrari mi aveva consegnato il brevetto di guastatore e allora ho deciso di andare a Pavia con altri amici e colleghi della X Compagnia.
 
GM: Ma perché, dopo l’incidente della mano, e dopo l’8 settembre, è voluto rimanere in servizio?
 
UP: Dopo la perdita della mano? L’amor di Patria. Ho rinunziato alla convalescenza, e sono ritornato al mio reparto, al comando del primo Plotone della Decima Compagnia Guastatori Santa Barbara, che doveva andare a Malta.
È vero: potevo starmene tranquillo dopo l’8 Settembre, invece me ne sono andato volontario nella Decima MAS. Guardi io ho sempre creduto che è una cosa inutile, stupida, quando si è arrabbiati, sputare sopra una fotografia, strapparla. A me è capitato, prima che partissi per Pavia: ho comprato un giornale illustrato, e c’era nella prima pagina la foto di Badoglio, m’è venuto una cosa di rabbia, ho scaraventato il giornale per terra e mi sono messo a ballarci sopra. A noi, di combattere in favore dell’ex Re d’Italia, non ci andava, perché per noi era un traditore, un vigliacco, insomma.
 
GS: Quindi vi siete riuniti a Pavia…
 
UP: Ci siamo riuniti a Pavia, nella caserma Umberto I; piano piano sono arrivati dei ragazzi e abbiamo cercato di mettere su qualche cosa, una squadra. Io ero appena sottotenente, gli altri colleghi erano tutti sottotenenti, ufficiali di grado superiore non ce n’erano: eravamo tutti giovanotti, io ero uno dei più anziani.
 
GM: E gli ufficiali dov’erano andati?
 
UP: Chi se n’è andato da una parte, chi dall’altra; ognuno ha scelto secondo i propri interessi e i propri gusti, le proprie ideologie. A me questo capovolgimento di fronte non era per niente gradito, no, perché io lo intendevo come una grande vigliaccheria questo fatto qui: di scappare, lasciandoci senza ordini. Tanto è vero che non solo io, ma tutto l’esercito italiano s’è disfatto come neve al sole, in pochi minuti, in pochi giorni si è disciolto tutto un esercito!
Allora abbiamo parlato col colonnello Ferrari, gli abbiamo detto che bisognava organizzare di più, chiamare, fare qualche bando perché venissero altri ufficiali superiori, e siccome sapevamo che il capitano [Manlio] Morelli era ricoverato a Bologna, per una ferita che aveva avuto in Russia, facemmo un bando, quasi chiamandolo personalmente. E si presentò. Si presentarono anche altri ufficiali che erano stati con Morelli, che aveva combattuto nel XXX Battaglione Alpino Guastatori, in Russia.
Il XXX si chiamava “Valanga” ed era partito in Russia al comando del maggiore [Vincenzo] Mazzucchelli. Durante un combattimento Mazzucchelli, cercando di fermare un carro armato russo con le bombe a mano, è morto, Morelli ha cercato di andargli in aiuto e si è beccato una fucilata, è caduto a terra svenuto, per fortuna il gelo gli ha bloccato l’emorragia, altrimenti sarebbe morto dissanguato. Insomma, sono riusciti a metterlo in salvo e lui, poi, è rientrato in Italia ed è stato ricoverato a Bologna.
Si presentarono anche reduci del XXXI e il XXXII che avevano combattuto in Africa  Settentrionale. Il XXXII era stato decimato due volte, tanto che i superstiti furono  incorporati dal XXXI che alla fine del giugno del ’42 andò a comandare il maggiore Paolo Caccia Dominioni: il costruttore del cimitero di El Alamein. Con Caccia Dominioni, come ho già detto, siamo stati compagni al corso guastatori, a Banne, e abbiamo fatto l’ultimo esame assieme; abbiamo tenuto sempre una buona amicizia, un’amicizia da guastatori, diciamo. Poi lui è partito in Africa col XXXI e io sono stato assegnato alla X Compagnia.
A Pavia, comunque, abbiamo costituito un battaglione: c’erano il capitano Morelli, comandante, Palazzolo che era tenente e aveva combattuto in Russia, un sottotenente medico, un fiorentino, una testa matta, di cui non ricordo il nome.
 
GS: C’erano anche dei sardi?
 
UP: Di Sardi c’ero io, e pochi altri; c’erano il maggiore Orrù del Battaglione “Fulmine” che è arrivato con Morelli, il capitano Satta. A Pavia si è costituito questa specie di battaglione. Arrivarono come volontari un sacco di ragazzi minorenni, e a tutti gli facevamo fare un po’ di esercizio militare, ma armi non ne avevamo. Allora con Morelli e gli altri ufficiali siamo andati a Milano a fare una visita al generale Masia [Giovanni] e al generale Gioacchino Solinas, che era diventato comandate regionale della Lombardia, e abbiamo chiesto delle armi per organizzare il battaglione.
Solinas è stato l’unico generale che ha partecipato alla difesa di Roma, e poi schifato ha optato per la Repubblica Sociale Italiana, e lì ci ha detto che armi non poteva darcene; e siccome gli ho parlato in sardo, m’ha chiesto se volevo rimanere con lui, ma io non ho accettato la proposta, ho preferito rimanere coi miei vecchi colleghi. Ritornati a Pavia, abbiamo cercato di prendere contatti col principe Borghese, che era a La Spezia; e allora il comandante Morelli ha incaricato il tenente Vignudelli di andare a la Spezia come ambasciatore, per vedere se accettava il battaglione che avevamo costituito. Borghese rispose di sì e noi siamo partiti tutti per la X, a La Spezia.
Eravamo col cappello alpino perché Morelli, siccome era un alpino, ha proposto che tutti noi fossimo alpini. E siamo andati a La Spezia. Facevamo un po’ impressione agli altri che vedevano queste piume in mezzo ai marinai. Ad ogni modo, abbiamo costituito questo battaglione, sono arrivati altri volontari, e dopo un mesetto ci hanno inviati a Iesolo, dove c’erano anche gli altri battaglioni della X, per completare gli organici e poi essere assegnati a qualche reparto combattente. A La Spezia il comandante Borghese voleva che tutti i battaglioni della X portassero un nome di una nave affondata, il nome di una nave insomma, un cacciatorpediniere, un torpediniere, un sottomarino e al nostro battaglione era stato assegnato il nome del cacciatorpediniere Tarigo. Borghese voleva che noi mettessimo il casco dei marinai. Questo non andò a genio al comandante Morelli, che fece di tutto per farci lasciare il berretto alpino. E quindi abbiamo preso il nome di “Valanga”.
 
GS: Ha mai avuto occasione di conoscere personalmente Borghese?
 
UP: No.
 
GM: E Pasca Piredda lei l’ha conosciuta?
 
UP: L’ho conosciuta di nome, ma di persona no.
 
GS: Come mai il nome “Valanga”?
 
UP: Si chiamava “Valanga” perché ogni compagnia aveva un nomignolo. La nostra vecchia compagnia, la X era soprannominata “Santa Barbara”, quella di Morelli, che era in Russia, si chiamava appunto “Valanga”, insomma tutte avevano un nomignolo, tanto per distinguerle, anziché essere “prima”, “seconda”… oltre al numero c’era il nome. Del battaglione “Valanga”, degli ufficiali che sono rimasti con noi c’erano il sottotenente medico Turci, Vinicio Degliani, e altri.
 
GM: Vi siete spostati da La Spezia?
 
UP: Da La Spezia andammo a Iesolo, e lì si completò il battaglione e si iniziò a fare le esercitazioni. Il nostro desiderio era di andare a combattere al fronte, insieme ai tedeschi insomma, non perché avessimo simpatia per i tedeschi, ma volevamo combattere per la patria, contro gli anglo-americani.Però i partigiani ci tiravano per la giacchetta, ogni tanto ci ammazzavano e allora per forza di cose siamo dovuti andare a combattere loro.
 
GS: E’ vero che con i partigiani sardi avevate un rapporto di quasi amicizia?
 
UP: No, non ne ho conosciuto di partigiani sardi. I partigiani sparavano e scappavano.
 
GS: E dopo?
 
UP: Dopo abbiamo continuato a combattere al confine orientale: i partigiani erano sempre attivi, con imboscate e altro. Hanno ammazzato diversi di noi. Per Natale eravamo in libera uscita, sono scesi da un viottolino, hanno iniziato a sparare alla cieca, ne hanno ammazzati diversi e sono scappati. Io ero lì. Ho sentito le pallottole fischiare. Per fortuna non mi hanno beccato.
Durante un’altra azione, in una valle, la Valle dei Tramonti, abbiamo avuto degli scontri molto duri con i partigiani. La valle era lunga, incassata, e c’erano tre paesi: Tramonti di Sotto, Tramonti di Mezzo e Tramonti di Sopra. A Tramonti di Mezzo, che era il più importante, c’era una formazione di partigiani della Brigata Garibaldi, con del personale inglese, c’erano anche ufficiali inglesi, e si erano ben organizzati. Il Comando Divisione ci aveva ordinato di occupare il paese. E allora è partita la seconda compagnia. A me fu ordinato di proteggerla, passavamo sulla montagna, a monte della strada, in modo da eliminare, eventualmente qualche sorpresa partigiana. Ci sono stati dei combattimenti molto duri e abbiamo avuto delle perdite.
Il giorno dopo la mia compagnia è stata mandata ad occupare un paese della Slovenia, Tarnova, che era stata abbandonata dai tedeschi, siamo andati e siamo stati una ventina di giorni lì. Ma la compagnia era ai minimi termini, saremmo stati novanta, non di più, i bunker erano senza difesa, perché erano muri a secco. Il bunker che mi avevano assegnato era difeso da un solo filo spinato, e allora tutte le sere, siccome il bunker rimaneva di fronte alla strada che conduceva verso la selva e la strada su un lato aveva uno strapiombo, tutte le sere io legavo con lo spago la sicura di una bomba a mano; lo spago lo tendevo, sbarrando la strada, e la bomba la mettevo sul bordo del burrone, in modo che se passava qualcuno avrebbe toccato il filo, avrebbe staccato la sicura e la bomba sarebbe caduta nel dirupo, scoppiando. Così avrebbe dato l’allarme. Tutte le sere facevo questo lavoro. La mattina riprendevo la bomba e me la mettevo in tasca.
 
GM: Ma lei in quel periodo, quando era lì, sua moglie la sentiva?
 
UP: Mia moglie mi ha seguito a Iesolo, dove si trovava il battaglione, poi, verso l’agosto del ’44, sono dovuto partire [il Valanga è stato a Iesolo dal 12 aprile al 14 agosto 1944]. Siamo stati spostati in Piemonte [12 agosto – 30 ottobre 1944], dove abbiamo combattuto i partigiani.
 
GM: E quando l’ha rivista?
 
UP: A Sassari, dopo un paio d’anni. A Iesolo è nata Fiorenza, mia figlia.
 
GS: Stavamo parlando della battaglia di Tarnova…
 
UP: Sì, nel Natale del ’44 ero ancora nel Veneto. Nel ’45 il battaglione Valanga venne spostato a Tarnova. Le notizie che ci arrivavano erano di un’imminente aggressione da parte degli Iugoslavi, il famoso IX corpo di Tito, che ci avrebbe ammazzato tutti perché eravamo pochi, e poi l’armamento che avevamo era l’armamento individuale e basta. In soccorso ci avevano mandato una batteria del San Giorgio, ma eravamo sempre pochi, pochi e male armati, allora verso la metà di gennaio del ’45 ci diede il cambio il battaglione dei bersaglieri “Fulmine”, quello comandato dal maggiore Orrù, soltanto che lui per una ferita che aveva avuto in precedenza non era presente, e noi siamo rientrati a Gorizia. A Gorizia, il capitano Satta, che era il comandante della prima compagnia, dato che io ero il sottotenente più anziano, mi diede l’incarico da vicecomandante. Il capitano mi disse “Guarda, io mi devo assentare, pensaci tu, tanto non succederà nulla.” Nel frattempo, avevo mandato due ragazzi in licenza, che abitavano lì nei dintorni, e avevo sguarnito ancora di più la compagnia. Siamo stati tre giorni tranquilli, ma una sera arriva un’auto grigia e la notizia, la brutta notizia, che il “Fulmine” era stato assalito dai partigiani iugoslavi a Selva di Tarnova e bisognava correre in soccorso. E io, come comandante della compagnia, mi sono messo a urlare l’adunata, i tedeschi ci hanno dato tre camion con autisti: ho caricato armi e materiali di tutti quelli che volevano venire e siamo partiti verso Tarnova. Io ero nel camion di punta, il primo, come spettava ad ogni buon comandante, dopo un po’ sentii un botto. Sentire i botti allora era una cosa normale, ma ne sentii un secondo; il terzo botto me lo sono sentito io, la ruota sinistra del camion era andata a finire sopra una mina, e aveva messo il mezzo fuori uso. Io ero seduto proprio sopra la ruota che è scoppiata, sono rimasto stordito, con il mitra sopra il ginocchio, non sapevo se era partito un colpo dal mitra o cos’era. Poi mi sono accorto che i due autisti tedeschi arraffavano la documentazione del camion e se ne andavano, allora sono sceso.
 
GS.: Cos’è che prendevano i tedeschi?
 
UP.: La documentazione della macchina. Era tedesca, mica nostra. Allora sono sceso e ho visto in lontananza che quei botti erano degli altri camion e che i soldati salivano trascinando sul ghiaccio le  cassette di munizioni. Abbiamo aspettato che arrivassero tutti e una volta riuniti abbiamo deciso cosa fare e abbiamo cercato di andare avanti a piedi, ma non c’è stato possibile, perché gli iugoslavi hanno iniziato a sparare e noi siamo tornati indietro. Nel frattempo è arrivato in soccorso un carrarmato tedesco; è andato avanti e noi tutti appresso, però, arrivato in quel punto in cui anche noi eravamo tornati indietro, non c’è stato verso, il fuoco di sbarramento era fortissimo: ha sparato due colpi, due cannonate; siccome la strada era incassata nella la valle del Chiapovano non c’era molto da fare: bisognava ritornare a marcia indietro, e quindi il carrarmato ha dovuto fare retromarcia e noi appresso. Alla fine ci siamo ricoverati, era già sera inoltrata, in una casermetta abbandonata che era ad un bivio, di cui non ricordo il nome, e lì abbiamo passato la notte in attesa di organizzarci, di fare qualche cosa. All’alba sono arrivati gli altri battaglioni della Decima, però anziché passare sulla strada, come avevamo fatto noi, sono saliti sul crinale della montagna e noi ci siamo uniti a loro, a piedi. Quando siamo arrivati a Tarnova abbiamo trovato il Fulmine che combatteva casa per casa. La battaglia fu durissima, ma siamo riusciti a liberarli.
Rientrati a Gorizia, ho fatto la mia relazione al capitano Satta. Lui mi ha ascoltato in silenzio, ha fatto di testa e mi ha detto: “Un nastrino te lo sei meritato.” Però di questo nastrino io non ho visto nulla.
Dopo Gorizia ci siamo dovuti spostare verso Vicenza. I partigiani non ci davano tregua e quindi bisognava difendersi.
 
GS: Vi attaccavano continuamente?
 
UP: Scendevano, sparavano, scappavano: io li ho visti sempre scappare, insomma. Poi questa gente qui faceva sacrificare quelli dei paesi, gli portava via il grano. Siamo arrivati in un paese, noi della compagnia…
 
GS: Se lo ricorda il nome di questo paese?
 
UP: No, non lo ricordo il nome; erano tutti paesi di montagna, piccolini, paesi sloveni… abbiamo visto che c’era un mucchio di grano così, all’aperto, e i paesani ci hanno detto “C’erano i partigiani, ce lo avevano requisito, per affari loro, e a noi non ce ne avevano lasciato” e allora il capitano ha  radunato la popolazione e ha detto “Pigliatevi tutto il grano che volete” e noi siamo andati oltre.
 
GS: Ha mai preso parte ad esecuzioni di partigiani?
 
UP: Una volta.
 
GS: Se la sente di raccontare…
 
UP: E’ successo questo: stavamo passando in un paese, io non ricordo i nomi, ma eravamo lì, sul confine orientale, e ci è venuta incontro una donna, una donna anziana, vestita di nero, che pregava il nostro comandante di portarsi via suo figlio, perché diceva: “Mio marito l’hanno ammazzato i partigiani, era un capitano degli Alpini”. I partigiani l’avevano ammazzato perché li aveva rimproverati dei loro abusi, delle loro soperchierie; questa donna aveva paura che il figlio facesse la stessa fine e pregava il capitano Morelli , che lo ha preso ed è venuto con noi.
 
GM: Quanti anni aveva questo ragazzo?
 
UP: Avrà avuto quindici, sedici anni, un ragazzino. E quindi è venuto con noi e abbiamo continuato la nostra strada e ci siamo fermati in un paese vicino, per passare la notte. Non mi ricordo adesso se il giorno dopo, di sera, ci venne incontro nuovamente questa signora, che,  infilato nei capelli, aveva un messaggio. Lo consegnò al capitano e gli chiese aiuto perché il paese era stato occupato dai partigiani che ne stavano facendo di tutti i colori. Bisognava andare in aiuto. Bisognava andare in soccorso di questi abitanti. Il capitano si stava organizzando e allora ho detto “Ci vado io”. Ho preso alcuni volontari e siamo andati. Appena arrivati ci dissero che erano scappati e che alcuni si erano rifugiati in una casa, allora siamo entrati nella casa: erano rimasti in due: uno è riuscito a scappare e l’altro sono riuscito a bloccarlo e farlo prigioniero. Però, a me, questo fatto di fucilare la gente non m’andava. Un conto è il combattimento, un conto la fucilazione. Questo partigiano aveva una inglese bellissima, di quelle cose che noi ci sognavamo: un fucile mitragliatore, naturalmente l’ho sequestrato. Quindi siamo usciti da questa casa, era già buio, e non sapevo cosa fare. E pensavo, da buon cristiano “Lo dovrò far confessare, prima di…”. E lo stavo accompagnando in canonica, dal prete. Lì è arrivato il comandante della Compagnia, preoccupato dalla mia assenza, che si era troppo prolungata, era arrivato in soccorso, pensando di dovermi aiutare;  mi ha visto con questo prigioniero: “Cosa fai lì?” Io non sapevo cosa rispondere; lo ha preso, lo ha messo al muro, e gli altri lo hanno fucilato. Io ho assistito alla fucilazione, ma non ho sparato.
 
GM: Venivate spostati continuamente…
 
UP: Sì. Infatti verso la fine del ’44, inizi del 1945, ricordo che c’era molto freddo, i tedeschi stavano cercando di impadronirsi della Provincia di Bolzano e di altri posti, approfittando del marasma che si era creato dopo la fuga e avevano vietato che si esponesse il tricolore, così il principe Borghese, saputo di questa storia, spostò la X, che era presso Vicenza, in quelle zone. Noi del “Valanga” trovammo alloggio in una vecchia casermetta dell’aeronautica, ormai abbandonata. Il comandante della divisione, Morelli, una volta installato il proprio ufficio, fece esporre la bandiera italiana. Il giorno dopo arrivò un ufficiale tedesco pregando il comandante di togliere la bandiera italiana perché quello era un territorio sotto la giurisdizione tedesca. Il comandante gli rispose:“Sino a prova contraria siamo in Italia e io espongo la bandiera italiana. Il tricolore non lo tolgo.” Questo se n’è andato imbufalito, e il giorno dopo è ritornato con un plotone di soldati, armati, ed è salito nuovamente a colloquio con il comandante Morelli, pregandolo di togliere il Tricolore. Quello l’ha intrattenuto un poco, discorrendo, ha fatto una telefonata, insomma, ha fatto passare un po’ di tempo. Dopo una mezz’oretta il nostro comandante ha ricevuto la telefonata, ha risposto “Va bene” e subito dopo ha pregato l’ufficiale tedesco di affacciarsi alla finestra; questo si è affacciato e ha visto i suoi soldati circondati da un reparto della X con i fucili spianati. Ha capito l’antifona e se n’è andato e il tricolore è stato esposto, non è stato tolto.
 
GS: Ormai siamo vicini alla fine della guerra.
 
UP: Sì. Dalla zona di Bolzano ci siamo spostati a Bassano del Grappa e pensavamo ancora di combattere, di andare in Valtellina. Ma ormai la situazione era compromessa: gli americani avevano sfondato, le città del Nord Italia erano nelle mani dei partigiani. Ad un certo punto arrivò l’ordine di andare verso Marostica, vicino a Bassano, e poi, con i reparti superstiti, verso Venezia. Ma fummo circondati dai partigiani. Morelli allora fece un accordo con i partigiani non comunisti: il Valanga avrebbe consegnato le armi, in cambio di un rifugio a Bassano. Morelli si offrì come ostaggio. I partigiani accettarono e così il “Valanga” fu sciolto [il 28 aprile]
Ci siamo arresi ai partigiani, gli abbiamo lasciato le armi, ma gliele abbiamo tutte disattivate, in modo da non essere usate contro di noi, e ci hanno riaccompagnato a Bassano del Grappa dove abbiamo passato la notte. Poi ci hanno lasciati liberi. Un po’ si sono diretti nelle chiese, perché correva voce che lì si poteva trovare un rifugio sicuro. Alla fine eravamo in nove dello stesso Battaglione, e ci siamo diretti a piedi verso Venezia. A un certo punto vediamo questa banda, con tanto di bandiera rossa, con donne in prima fila più scalmanate degli uomini; tutti gridavano, e c’era, mi ricordo, un tipo bassoccio, robusto, con tanto di fazzoletto rosso, con due pistoloni, che forse non aveva mai usato, e noi, tranquilli dell’accordo fatto con i partigiani, di lasciarci liberi di poter raggiungere le nostre abitazioni, stavamo lì a guardare come spettatori comuni. Ad un tratto una donna, guardando verso di noi: “Eccoli, sono lì. I fascisti!”. Ci acchiappano, ci volevano fucilare. E ci hanno messo al muro per essere fucilati…
 
GM: Vi hanno proprio appoggiati al muro…
 
UP: Per essere fucilati. Per fortuna, in quella colonna c’erano i comunisti ma la zona era in mano ai democristiani, infatti, nel plotone d’esecuzione, c’era un comandante partigiano democristiano che prendeva ordini da un prete, un certo Don Primo, e tutte le volte che pigliavano una decisione si voltavano verso di lui e dicevano; “Don Primo, cosa ne dice?” E noi, al muro, a guardare questo prete. All’improvviso, forse avvertiti da qualcuno, sono arrivati gli americani e ci hanno portati via.
Ci hanno portati via, ci hanno portati in una villa, con un grande parco vicino a Bassano del Grappa. E lì c’erano altri partigiani armati, ci hanno messo nuovamente al muro, anche loro, e sulla destra, io ero il primo sulla destra, c’era questo ragazzino con un fucile più alto di lui; e mi puntava il fucile sul fianco, mi spingeva e mi diceva “Scappa che ti sparo”. E io me lo guardavo: “E dove scappo?”. Il prato era pieno di armati, di prigionieri.Alla fine hanno deciso di non fucilarci e ci hanno rinchiusi.
 
GS: Perché?
 
UP: Ma forse non avevano pallottole, forse i fucili non erano neanche carichi, forse volevano solo farci paura, perché eravamo sotto la tutela degli americani e senza il loro permesso non potevano toccarci. Ci hanno preso e ci hanno rinchiuso in una stanza, al secondo piano di questa villa.
 
GS: Forse volevano indurvi a scappare in modo da giustificare una vostra esecuzione…
 
UP: Forse…
E così siamo rimasti lì qualche giorno, poi sono arrivati i camion americani, ci hanno caricati e ci hanno portati tutti a Coltano, vicino a Pisa.
A Coltano sono stato sino alla fine di Ottobre del ’45 e lì ho saputo che mio padre era già morto da un anno.
 
GS: Quando eravate a Coltano, non sapevate niente di quello che stava accadendo in Italia?
 
UP: Sapevamo tutto. Al campo circolava «l’Uomo Qualunque», l’unico giornale che abbiamo visto nel campo di concentramento. Abbiamo fatto il tifo, “Quello ci aiuterà, sta lottando per noi”. Poi è stato un fesso anche lui, perché gli hanno detto di parlar male di Mussolini e ha perso tutta la clientela.
 
GS: Leggevate solo «L’Uomo Qualunque» o anche altri periodici come «Rivolta Ideale»?
 
UP: Ricordo solo «L’Uomo Qualunque».
 
GS: Dopo Coltano è rientrato a Sassari. Quando è rientrato a Sassari che cosa ha fatto? Ha fatto politica, si è avvicinato al Movimento Sociale? Se lo ricorda chi c’era nel Movimento Sociale di allora?
 
UP: Quando sono uscito da Coltano sono andato a Civitavecchia, cercavo un imbarco, ma niente. Alla fine mi han detto che a Napoli c’era un centro di raccolta: si poteva tornare in Sardegna. E allora mi son diretto a Napoli e insieme ad altri prigionieri mi sono ricoverato al Chiostro di San Martino, a Posillipo, una delle colline di Posillipo. Lì potevo mangiare qualche cosa. Una sera ero seduto nella balaustra, non c’era nessuno, ero solo, ero seduto proprio di fronte a Spaccanapoli, vedevo questa strada buia, scura, e mi ricordavo dei romanzi letti, dei napoletani che parlavano di Spaccanapoli, della vita di Spaccanapoli… a un certo momento ho visto la città illuminarsi, erano anni che non vedevo l’illuminazione elettrica, mi son sentito così libero che ho pensato che era finita davvero…
Poi è’ arrivata una nave da guerra italiana, e ci ha scaricati a Cagliari. A Cagliari abbiamo trovato una tradotta che è partita, carica di prigionieri, si fermava in ogni stazione, sono arrivato a Sassari che saranno state le tre e mezza, le quattro del mattino, mi sono diretto a casa, sono arrivato e guardavo le finestre, tutte buie. Abitavo in via Lamarmora, le quattro cantonate di via Rosello, allora c’erano i paracarri, in quella strada, e la mia casa faceva angolo tra via Rosello e via Lamarmora, l’ingresso era in via Lamarmora. Non avevo il coraggio di entrare. Mi sono seduto sul paracarro, pensando a cosa fare. A un centro punto, dopo un paio d’ore, mi stavo addormentando, non ne potevo più e sono entrato in casa, ho suonato, e mi ha aperto mia cognata, la moglie di mio fratello, anche lui era tornato dall’Africa malato, dove aveva comandato una stazione radio. Mia moglie era lì, con due figli, perché uno era nato a Iesolo. Non li vedevo dalla fine del ’44.
A Sassari due giorni dopo mi sono presentato al Distretto, a dire che ero arrivato. E un maresciallo tutto pomposo mi ha detto “Signor Pasella, lei non è più ufficiale.” “E come non sono più ufficiale?” “No, perché in base al disposto del Principe Regnante gli ufficiali che hanno partecipato alla Decima MAS della Repubblica Sociale sono stati puniti con trenta giorni di fortezza e rimossi dal grado, in attesa di giudizio.” A me poco importava: io non ero ufficiale di carriera, ero ufficiale di complemento. Il guaio è venuto quando sono andato in ufficio. Anche lì mi han detto che la direzione l’aveva presa un comunista, un poco di buono…
 
GM: Come si chiamava?
 
UP: Dessì, Fausto Dessì.
 
GM: Quindi è rimasto senza lavoro?
 
UP: Due anni e più, due anni passati senza lo stipendio. Mia moglie è stata un anno dentro casa senza poter uscire perché non aveva niente da mettersi addosso. Un po’ m’ha aiutato mio fratello, ma mica poteva aiutare una famiglia intera per tanto tempo. Epurato da questo, epurato da quello, mi sono trovato a fare il libero professionista, io sono perito agrario. Mi aiutò un mio cugino avvocato: “Se hai qualche causa o amici che hanno qualche causa, fammelo sapere, così…”. E così sono diventato perito del Tribunale. Avevo lasciato gli studi da tanti anni: mi sono rimesso a studiare, e siccome ero amico di Foddanu, tutte le volte che sapevo di qualche libro che mi interessava, andavo da lui e me lo facevo dare a rate. È stato un buon amico.
Ho fatto diversi progetti di pozzi artesiani, rettifica di confini, valutazione di fondi, venivo chiamato spesso quando c’era qualche causa, e anche la Cassa del Mezzogiorno mi ha dato diversi incarichi.
Poi trovai un posticino, nell’ufficio di raccolta del grano e dell’olio, e mi mandavano nei paesi, sono stato ad Alghero, a Tempio, a Sorso. Dovevo soggiornare lì, perché i trasporti…
 
GM: Poi è rientrato all’INAM?
 
UP: sono rientrato, con l’ultimo livello: il mio primo stipendio era più basso di quello del fattorino. Mi sono arrangiato, sono stato zitto, ho lavorato e piano piano mi hanno ridato lo stipendio di impiegato, di impiegato semplice.
 
GM: Non ha più ripreso la qualifica di funzionario?
 
UP: L’ho ripresa, ma c’ho sudato. Ho dovuto fare un altro concorso, l’ho passato, ma mi hanno lasciato a fare l’impiegato, con lo stipendio da funzionario…
 
GS: E politica, non ne ha fatto?
 
UP: Come no? Ci siamo ritrovati, i vecchi amici, a Sassari, in Piazza Tola, col Movimento sociale. La prima sede l’ho conosciuta in Piazza Tola. Ma non partecipavo molto alle riunioni.
Dovevo lavorare, avevo figli, avevo perso il lavoro, perché ero sotto inchiesta, e avevo dovuto arrangiarmi a fare qualche cosa. E quindi poco potevo frequentare le riunioni dell’ Msi. Più tardi, quando sono tornato a Sassari, allora ho partecipato di più: ho fatto parte del Direttorio.
 
GS: Ha avuto qualche incarico nel Movimento Sociale?

UP: Sì ero addetto alla ricezione dei nuovi tesserati. Sono stato anche candidato alle Comunali, alle Provinciali, come Senatore.
 
GM: Ma poi, dopo la Guerra, quando è tornato a Sassari, è rimasto in contatto con
qualche commilitone?
 
UP: Sì, coi miei colleghi. Specialmente con due: con Piero Criscini, con cui abbiamo fatto il corso Guastatori assieme, siamo stati nella stessa Compagnia, nella Decima e con Gusberti, della stessa Compagnia, e poi con altri del Battaglione.
 
GS: i gradi, li ha poi riavuti?
 
UP: Sì. A un certo punto ricevo una lettera in cui c’era scritto che ero stato reintegrato nel grado di sottotenente; Nel ’48 o nel ’50 nel ricevo un’altra, sempre dal Distretto, che ero stato promosso tenente. Poi, ancora un’altra, che ero stato promosso capitano.
Insomma ho fatto carriera. Siccome non avevo fatto mai niente di male, a tutti dicevo che avevo combattuto, che ero stato volontario, ferito e mutilato di guerra, che avevo rinunciato alla convalescenza per tornare nel reparto, probabilmente sono state tutte notizie che hanno prodotto una buona impressione verso gli esaminatori. Poi il fatto che da sottotenente ho comandato una compagnia in un attacco, anche quello avrà avuto un certo valore.
 
GM: Ma adesso ci pensa spesso ancora a quei tempi?
 
UP: Ci penso perché le vedo, le fotografie, le cose, ma non è che io… non dimentico, ecco, non si può dimenticare.
Qualche anno fa un ricercatore veneto si interessò alle sorti del “Valanga”. Io gli raccontai ciò che sapevo. Per me la storia era finita. È passato un po’ di tempo, e ricevo una lettera in cui mi si diceva che gli altri reduci avevano chiesto notizie di me agli altri ufficiali del Battaglione. Ho saputo che ero stato proposto per una medaglia d’argento. Però la medaglia, ancora una volta, non me l’hanno mai data. Mi ha fatto piacere, son notizie che comunque fanno piacere.
 
 
 



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Bellissima intervista e complimenti agli autori, che hanno evidentemente superato l'orrendo pregiudizio ideologico che ancora infetta l'Italia.

Sandro




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