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Rubrica bassa cucina
La finta riforma della cooperazione
(Giampiero Muroni)
In occasione dell’approvazione del DPEF estivo, quel documento che secondo Tremonti avrebbe dovuto rivoluzionare l’impianto della finanza pubblica, alcuni addetti ai lavori hanno avuto modo di osservare un curioso balletto di norme che nel loro elegante apparire e subitaneo scomparire possono dare il segno di una politica meglio di tante dichiarazioni dei vari portavoce che affollano i pastoni televisivi.
Dico “addetti ai lavori” perché credo che ben pochi, oltre a coloro che in un modo o nell’altro sono interessati direttamente all’argomento, abbiano avuto modo di scoprire che nella calura di Luglio stava per realizzarsi una profonda riforma della cooperazione, nata di sorpresa tra gli emendamenti di matrice governativa e infine ritirata, come una bolla di sapone che si sia gonfiata troppo.
La normativa attuale prevede che le cooperative che si associno a una centrale riconosciuta dallo Stato (Legacoop e Confcooperative, le più importanti) ricevano da loro la vigilanza speciale dovuta in cambio dei benefici fiscali di cui godono. Alle centrali, del resto, le cooperative associate sono tenute a versare i contributi biennali oltre al 3% degli utili realizzati. Le coop non associate, invece, sono vigilate dallo Stato e allo Stato versano contributi e quota degli utili.
È un sistema poco limpido – è evidente – visto che i rapporti anche politici tra controllati e controllori rendono la vigilanza suscettibile di più di un sospetto, ma così è dal 1947, quando, finita la guerra, pochi sapevano cosa sarebbe stata la democrazia italiana e si tendeva a garantire alla propria parte uno spazio di sovranità settoriale che poteva tornare utile – come in realtà fu.
Con una piccola postilla nel maxiemendamento promosso dalla maggioranza al proprio provvedimento di programmazione, in pieno Luglio, saltò fuori che le cooperative associate alle Centrali e con un fatturato inferiore al milione di euro avrebbero potuto evitare la revisione con una semplice autocertificazione di correttezza. In pratica si stabiliva che oltre il novanta per cento delle cooperative non avrebbero più dovuto subire alcun tipo di vigilanza da parte delle proprie associazioni. Questo (forse) avrebbe voluto dire che non era neanche più dovuto il contributo versato proprio a tale titolo dalle cooperative e, di conseguenza, che la gran parte degli introiti delle Centrali sarebbe venuta meno. Di più: se tale tipo di “esenzione” dalla vigilanza riguardava solo le cooperative associate alle Centrali, sarebbe stato ragionevole attendersi una migrazione di quelle “libere” che avrebbero fatto a gara nell’associarsi e quindi nel liberarsi dalle ispezioni e dall’obbligo di versare il contributo biennale. Insomma, un bel “tana, liberi tutti” generalizzato, con buona pace di tutte le norme sull’argomento dall’art. 45 della Costituzione in poi.
Se una riforma del genere – rivoluzionaria e inedita – fosse arrivata dopo una presa di responsabilità dei proponenti, nulla quaestio: chi governa ha pieno diritto a modificare le norme e a imporle, e chi le subisce si adegui – con piena facoltà di critica, ovviamente. Questo in un “Paese normale”, come direbbe D’Alema, non qui. Qui da noi, invece, le riforme le si intrufola dentro leggi enormi e illeggibili, di modo che nessuno, se non gli “addetti ai lavori”, le possa conoscere. Poi si aspetta che, anziché il pubblico dibattito sulle conseguenze della riforma, sui probabili costi e benefici, si instauri una privatissima e sotterranea battaglia di pressioni e richiami, messaggi in codice e tecniche lobbistiche mediterranee, gran mostre di muscoli e di occhietti.
Così, dopo che i giornali e le tv avevano ignorato l’emendamento in questione, che articoli di fuoco fatuo erano apparsi su siti specializzati e che parole rassicuranti erano state soffiate dentro orecchie attente, ecco che nella navetta tra Camera e Senato l’emendamento galeotto, così come senza rullar di tamburi era stato inserito, altrettanto silenziosamente scompare, inghiottito dalle nebbie che ne avevano accompagnato l’effimera vita. Senza clamori, senza che qualcuno abbia detto “Abbiamo cambiato idea”, senza che nessuno si sia preso briga di spiegarne le ragioni, senza padri era nato e altrettanto orfana è morta, la Gran Riforma della cooperazione, spernacchiamenti inclusi a favore di chi ancora crede che dietro le norme ci siano le convinzioni.
Qualcuno, che si finge scafato, ha detto che tutta la trovata è stata un ballon d’essai, un messaggio trasversale lanciato agli avversari politici, del tipo: “sappiate che vi teniamo d’occhio; non tirate la corda o vi faremo male”. Chissà se è vero. Quel che è certo è che una materia che avrebbe bisogno di novità e di idee si trova condannata a giacere tra le trincee dell’ultimo campo di battaglia ideologico rimasto, sottoposta ai tiri delle artiglierie avverse, in attesa che qualcuno, da qualche parte, non porti la notizia che la grande guerra è finita.
Nel frattempo, chi si fosse illuso (come me) che sia possibile un riformismo di destra è servito: per questa volta è andata così; riprovate a crederci la prossima.
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