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Rubrica bassa cucina
Il prezzo del latte ovino e due argomenti di cui non parla nessuno
(Giampiero Muroni) per gentile concessione di www.ventirighe.it
La questione del "prezzo del latte" rappresenta da anni una costante stagionale della politica regionale. Il coinvolgimento di migliaia di operatori e le dimensioni della partita economica fanno sì che ogni estate si ripresentino le rivendicazioni dei pastori, il balletto delle cifre della crisi del settore (aggravate dal calo dei consumi o dalle fluttuazioni del dollaro) e naturalmente le prese di posizione dei partiti, tanto più preoccupati da quando il Movimento dei Pastori ha deciso di non delegare ad altre associazioni la rappresentanza dei propri interessi e ha inaugurato una stagione di lotta aspra ed eclatante.
Si tratta di una vertenza che lo scambio di "veleni" tra il leader del Movimento e l'Assessore competente non aiuta a dirimere, né serve a chiarirne i termini, peraltro, il gioco a rimbalzo di accuse in cui la politica regionale è scesa, a dimostrazione delle modalità, tutte di scontro, con cui si intende oggi la dialettica tra gli schieramenti. Nessuno degli attori in scena - mi pare - può vantare una coscienza immacolata dai tanti errori del passato (né la classe politica né gli imprenditori agricoli oggi sulle barricate) e la questione, già abbastanza complessa e confusa di suo, non ha bisogno di ulteriori polveroni.
Tra i tanti argomenti gettati in campo negli ultimi nervosi comunicati contrapposti, ne mancano però almeno un paio che, credo, possano contribuire a dare una visione un po' più ampia della faccenda e forse a darle quella sobrietà che meritano i tanti soldi e le vite coinvolte.
Il primo è quello delle dimensioni delle aziende produttrici. Paradossalmente il problema non è tanto quello del singolo pastore che decide di non aderire ad una delle tante cooperative che coprono l'intero territorio sardo, perché la sua, appunto, è una scelta. Una scelta che lo lascia solo di fronte a un mercato industriale tanto più forte di lui, con cui il braccio di ferro sulla quotazione del latte è irrimediabilmente perso in partenza, ma è una scelta libera. Non conosco casi in cui una cooperativa abbia rifiutato la richiesta di associazione di un pastore per minuscolo che sia il suo gregge e quindi la questione delle dimensioni aziendali non riguarda chi abbia deciso di salvaguardare la propria piccola autonomia, evidentemente ritenuta di valore inestimabile rispetto ai vantaggi dell'associarsi.
Riguarda invece, e assai, proprio le cooperative nate per risolvere il nodo della debolezza strutturale dei microimprenditori e che si ritrovano però oggi, in gran numero, a subire i fendenti di un mercato a causa delle stesse difficoltà (nell'esportazione, nella scarsa varietà delle produzioni) che incontrano i piccoli produttori.
Probabilmente anche le attuali dimensioni delle cooperative lattiero casearie sono inadeguate alle necessità, che richiederebbero soggetti molto più grossi e capaci di coordinare fasi della produzione e della commercializzazione con ben altro impatto rispetto a quanto la miriade delle piccole cooperative nostrane riesce a fare.
Un'analogia la possiamo forse trovare nella vicenda che ha riguardato le cooperative di lavorazione del latte bovino, che hanno visto negli scorsi anni una progressiva concentrazione attorno a una cooperativa capofila, che ha permesso al mercato sardo di resistere e bene all'ingresso dei grandi produttori padani. Certo il prodotto latte, considerato ancora una necessità familiare rivolta soprattutto all'infanzia e per cui la qualità fa premio sul prezzo, ha dinamiche diverse dal formaggio, ma forse, in assenza di quel processo di semplificazione e di razionalizzazione dal lato produttori gli scaffali dei nostri supermercati sarebbero molto più pieni dei brik Granarolo o Polenghi di quanto non sia ora.
Del resto una stagione di fallimenti e dolorose liquidazioni l'ha vissuta pure il comparto delle cooperative vinicole. Ricorderete di sicuro quando ogni paese il più sperduto aveva la propria cantina sociale, che produceva poco vino, di qualità scarsissima, dalle uve che ai produttori associati avanzavano dopo aver selezionato le migliori per le proprie minuscoli produzioni di concorrenza. Poi alcune cantine sociali seguirono la costosa strada della qualità, si lasciarono alle spalle le macerie di decine di cooperative senza futuro crollate sotto i debiti e oggi sono in grado di fornire a turisti e residenti una varietà di prodotti buoni per ogni tasca, oltre a qualche fortunata e lodevole eccellenza. Ancora: senza l'ecatombe delle piccole cantine sociali comunali troveremmo negli scaffali le bottiglie sarde che conosciamo oppure no?
La fine di molte cooperative lattiero casearie e la loro concentrazione in poche molto più grandi è una strada difficile ma probabilmente obbligata, capace di reggere il peso di una ristrutturazione del settore che sarà necessariamente lunga e dolorosa e che dovrà conoscere la riduzione della produzione - magari anche reintroducendo l'antica pecora sarda soppiantata negli anni dalle superproduttrici di selezione.
Purché - e questo è il secondo argomento che latita nelle discussioni pubbliche - si risolva un altro grosso problema delle aziende agricole sarde: l'età così avanzata dei loro titolari, che governano fin'oltre alla vecchiaia il patrimonio familiare e condizionano con la propria resistenza le tendenze al rinnovamento presenti innanzi tutto tra i loro figli. Una generazione più giovane ha molte possibilità in più di affrontare il cambiamento e di vincere la sfida.
L'alternativa è su connottu della pretesa dell'assistenzialismo pubblico, una strada che ha già donato al settore la bell'eredità di cui sta godendo.
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