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Rubrica Storie di letti
Il luglio rosso della democrazia
(Pietro Giuseppe Serra)
Vindice Lecis, Togliatti deve morire. Il luglio rosso della democrazia, Robin edizioni, Roma 2007, euro 10,00
Il 14 luglio 1948, davanti a Montecitorio, il siciliano Antonio Pallante estrae una rivoltella e spara a Palmiro Togliatti quattro colpi in rapidissima successione: il primo gli sfiora il capo, il secondo e il terzo si conficcano nella schiena, il quarto va a vuoto.
Dopo l’attentato, Pallante scappa ma la sua fuga durerà poco. L’Italia vive momenti drammatici, rischiando di piombare nuovamente nelle spire di una sanguinosa guerra civile: assalti alle prefetture e alle caserme, scioperi, manifestazioni, conflitti a fuoco. Spuntano le armi dei partigiani, quelle mai consegnate e nascoste in vista di “tempi migliori”; si pensa che questa volta la rivoluzione avrà finalmente la forza di spazzare via quel governo monocolore democristiano, frutto della vittoria di elettorale di aprile, col suo odiato ministro dell’Interno, Mario Scelba. Ma Togliatti, da abile politico qual è, consapevole dell’inattuabilità di un disegno rivoluzionario in una Italia ormai di fatto controllata dagli Stati Uniti, invita alla calma, parla alla radio, esorta gli operai a rientrare nelle fabbriche. Li convince a deporre le armi. “Non fate fesserie”, dice ai suoi più fidati collaboratori.
Il capo del Pci è ancora inchiodato in un letto d’ospedale che già si inizia a fare ipotesi sui presunti mandanti dell’attentato. Chi ha armato la mano dello studente siciliano? Le voci di un coinvolgimento dei servizi segreti americani in combutta con la mafia e con organizzazioni di estrema destra siciliane si fanno insistenti. E sono talmente ostinate da oltrepassare indenni quasi sessant’anni di storia italiana. Il 12 febbraio 2003, Repubblica riporta l’attenzione sui quei fatti presentando alcuni nuovi documenti in un articolo intitolato “Quando l’Oss spiava Togliatti”. Dalle carte dei servizi americani (Office of Strategic Services) ripescati a College Park escono le paure di una potenza che subito dopo la guerra teme una rivoluzione bolscevica in Italia. Togliatti viene spiato, seguito in ogni sua mossa da qualcuno che gli sta molto vicino. Ogni sua abitudine viene minuziosamente annotata, perfino la sua tendenza a bere quasi due litri di vino al giorno senza risentirne affatto. La spia continua a inviare informazioni anche dopo l’attentato del 1948, ma, a tutt’oggi, quelle stesse prove documentali non ci permettono di affermare una volta per tutte il coinvolgimento diretto degli americani. È di qualche tempo fa, infine, l’ottima inchiesta televisiva dello scrittore Carlo Lucarelli che ha fatto il punto della situazione, mettendo in relazione l’attentato al segretario del partito comunista italiano con la strage di Portella delle Ginestre (1947); e sono molte, secondo Lucarelli, le testimonianze orali che smentiscono le ricostruzioni ufficiali dei fatti. Eppure, anche in questo caso, non si è potuto fare a meno di ammettere che la verità è ancora ben custodita negli archivi segreti del central intelligence agency.
Partendo da queste ipotesi, Lecis, giornalista della Gazzetta di Reggio e in gioventù segretario della Fgci sassarese, mette su un romanzo. I giornalisti non sono nuovi ad operazioni di questo genere, basti pensare ai “Figli dell’aquila” di Giampaolo Pansa, ed in effetti a leggere il titolo dell’ultima fatica del giornalista sassarese, “Togliatti deve morire”, ci si aspetterebbero risultati similari a quelli dell’ex-vicedirettore di Panorama, invece non si può fare a meno di rimanere delusi. Lecis, dal punto di vista stilistico, si presenta al lettore con una prosa scarna e con un intreccio elementare che segue un rigoroso ordine cronologico; l’unica eccezione è rappresentata dall’anticipazione iniziale che ci presenta un Togliatti ferito e preoccupato per le sorti dell’Italia.
Protagonista della vicenda è Antonio Sanna, funzionario del Pci, che viene a sapere delle trame americane e si attiva per proteggere il compagno Ercoli (alias Togliatti), non riuscendoci. Il personaggio è appena abbozzato, i suoi tratti sono sfocati, privi di quella maturità e complessità psicologica che lo sottrarrebbero al facile ruolo stereotipato dell’eroe concentrato nell’assolvimento della sua missione; mai un’ incertezza; ma l’intento di Lecis, appunto, non è quello di fornire al lettore gli elementi di un’interiorità inquieta, dilaniata dal dubbio; d’altra parte, lo sottolinea Oliviero Diliberto nella prefazione per anticipare al lettore il messaggio del libro: mai viene messa in forse l’accettazione da parte del Migliore delle regole del gioco democratico – parlamentare. Lecis e Diliberto sono fermamente convinti di questo: Togliatti ha dismesso i panni dello stalinismo dopo la Svolta di Salerno e chi tenta di demonizzarne la figura affermando il contrario compie un’operazione storica sbagliata che ha precise finalità: inaridire le radici della sinistra democratica italiana per renderne più facile la sua liquidazione. È un secondo omicidio, insomma, ma alla memoria. Accettiamo volentieri la teoria Lecis - Diliberto, augurandoci, però, che ai romanzi seguano i saggi storici, con tanto di note a piè di pagina.
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