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Rubrica bassa cucina
Orti urbani
(Giampiero Muroni)
Se ne trovano spesso, nelle piccole città del nord, quelle raggiunte dalle periferie delle metropoli popolatesi negli anni di condomini anonimi e di enormi centri commerciali. Piccoli centri non rassegnati ad essere inglobati, che difendono con orgoglio le proprie identità, dove si vive nelle piccole piazze il tempo strappato agli spostamenti in treno o in macchina verso i luoghi di lavoro, dove è ancora possibile acquistare un appartamento con giardino e sopravvivono i negozi di quartiere.
Oppure ce ne sono nei piccoli comuni di provincia, quelli di 20, 30 mila abitanti, dove la qualità della vita misurata con gli standard dei centri studi è più alta e giovani assessori costruiscono la propria esperienza in ambiti in cui la politica convive con i progetti e le idee sono ancora capaci di portare consenso.
Sono i piccoli orti urbani, fazzoletti di terra ai bordi delle strade dove i pensionati coltivano melanzane e pomodori tenuti su da canne sottili, confinati da leggere reti divisorie, irrigati dall'acqua di condotta, curati da zappette precise come rasoi da barba. In quei pochi metri quadri di natura si coltiva il gusto per un'alimentazione biologica, la soddisfazione di far crescere e poi consumare insalate che non arrivino incellofanate in cucina, fragole minute e saporite da far assaggiare ai bambini, che non credano che crescano in vaschette. Gli orti urbani sono spesso il luogo in cui i vecchi possono rivivere i sapori e i gesti del proprio passato, passare ore d'aria libere dall'abbrutimento della tv della mattina, sentirsi vivi, muoversi, lavorare, portare a casa i frutti del proprio impegno.
Gli orti urbani sono spesso i giardini degli anziani, non quelle aiuole di tristezza infinita in cui si ritrovano nelle panchine a passare il tempo tra loro in amicizie precarie e occasionali. Sono i minuscoli parchi alimentari che hanno riportato nei centri abitati ciò che vi era stato esiliato dall'età moderna, da quando la distinzione tra città e campagna ha avuto il significato di una cesura sociale, borghesi contro villici, operai contro contadini, senza nessuno sconfinamento consentito in campo altrui. Ora non più: nel tempo dell'agricoltura industriale quelle siepi di fagiolini curati come orchidee hanno trovato in città il loro habitat più naturale, simili alle volpi che corrono di notte tra i semafori.
Che c'entra tutto questo con Sassari? Forse qualcosa.
Provate a passare il pomeriggio nei giardini pubblici, o nei vari salotti ripavimentati di recente, le piazze del centro, oppure tra gli spiazzi meno considerati tra i condomini di periferia. Poco distante dai crocicchi delle loro badanti, dal loro vociare slavo, centinaia di anziani sassaresi trascorrono i pomeriggi ad attendere la sera, tra una tirata a favore di Berlusconi ed una contro, gli immancabili racconti della propria infanzia e qualche menata sulla tv della sera prima.
Molti di loro non sono nati a Sassari, ma vi sono arrivati richiamati dalla crescita degli anni '50 e '60, lasciandosi alle spalle un lavoro da bracciante per diventare impiegati o infermieri e dare un futuro ai figli. Parlano un logudorese musicale e dolce, si ricordano l'un l'altro parole intraducibili, spesso nate a definire particolari minutissimi di una pianta o di un frutto che l'italiano ha trascurato.
Migliaia di pensionati popolano Sassari a ore stabilite, consuetudinari e precisi, per ritornare a sera nelle loro case, a guardare una tv più solita di loro, cittadini al passato, privi di un ruolo che non sia quello di spettatori.
Se avessero a disposizione un piccolo pezzo di terra da curare, molti di loro sarebbero in grado di tornare ad essere ciò che ricordano di essere stati, avrebbero il modo di uscire dal ruolo inerte che è l'unico che la città gli consente e acquistarne uno nuovo, vivo, produttivo, nel quale l'età avrebbe il senso dell'esperienza e non quello dell'esclusione.
Sassari avrebbe moltissimi spazi con la vocazione di orto urbano: la storia della città è un campionario di esempi che potrebbero rivivere senza particolare fatica. La stessa Valle del Rosello o quella dell'Eba Giara potrebbero essere ripristinate in ciò che sono state da secoli, divise in piccoli appezzamenti e forniti di attacchi all'acqua di rete, potrebbero diventare un laboratorio di politiche sociali a favore degli anziani ancora abili che, muniti di una minima attrezzatura, potrebbero occuparli in turni annuali per coltivazioni ad esclusivo uso domestico.
La distribuzione potrebbe avvenire nei modi in cui già avviene ovunque: un bando annuale e una graduatoria sulla base dell'età e del reddito. Se gli spazi sono insufficienti a soddisfare le domande chi ha avuto un orto un anno non lo avrà l'anno dopo, per tornare in testa quello successivo.
Non credo poi che organizzare corse dedicate del servizio di trasporto pubblico per portare gli assegnatari presso i propri appezzamenti costituirebbe un costo particolarmente elevato. Gli anziani potrebbero partire da casa e tornarci senza aggravare il centro di traffico privato, per di più con una prevedibilità dei flussi che faciliterebbe l'organizzazione delle corse.
Sarebbe un modo di dare senso al parco lineare urbano, per lo meno nelle sue parti pubbliche, che rispetti la storia dei luoghi e la rilegga alla luce delle mutazioni sociali intervenute, con una trasformazione indolore dall'orticoltura di sussistenza dei secoli scorsi a quella a carattere sociale della nostra epoca, in cui la popolazione anziana ha una consistenza inedita nel passato.
Qualcuno quando parla di parchi pensa sempre ai grandi alberi in cui corrono gli scoiattoli, come a Londra, ed è così che le proiezioni virtuali visualizzano in genere le aree verdi urbane. A me invece piace pensare che, passando da Ponte Rosello, sia possibile vedere decine di signori e signore coi capelli bianchi che legano con la rafia le piantine di pomodoro rampicante a piccoli steccati di canne. Mi sembrerebbe di vedere qualcosa di più bello della platea di pensionati dalla vita nei giardini pubblici che oggi pare l'unica possibilità offerta a chi ha più di sessanta anni e ha fatto un lavoro di quelli per cui, quando finisci, non ti offrono la presidenza di una fondazione.
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