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Rubrica Storie di letti
Un caso letterario: Padre padrone di Gavino Ledda
(Dino Manca)
1. La notorietà di Gavino Ledda, nonostante lo scrittore abbia, nell’arco di quasi un ventennio, composto altre opere[1], rimane tuttavia legata al suo «scandaloso» e controverso libro Padre padrone. Il romanzo, grazie anche all’opera filmica che ne trassero i fratelli Taviani, si affermò presso il grande pubblico soprattutto per i contenuti trattati e per talune «scabrose» sequenze narrative dal forte impatto etico ed emotivo. La fortuna del libro superò ogni previsione, in Italia e all’estero; non meno significativo il successo del film, che aveva tradotto in immagini il dramma esistenziale e umano di un giovane pastore e la rabbia con cui, nel suo sofferto percorso conoscitivo e intellettuale, si era opposto al padre in un confronto duro e totale[2].
Romanzo di formazione, Padre padrone si specificò - fra scrittura documentaria e creazione letteraria - come una sorta di apologo sul rifiuto del silenzio dinanzi a un potere autoritario e violento esercitato da un patriarca-padrone, e sulla necessità di affrancarsi dai legami in cui spesso costringono le proprie origini. Il racconto autobiografico si connotò quasi da subito di valenze altre rispetto alla natura del testo e verosimilmente alla volontà dello stesso autore[3]. Tutto questo avvenne in un contesto sociale e politico, quale quello degli anni Settanta, particolarmente sensibile ad accogliere talune sollecitazioni tematiche e a rileggerle secondo ben definite categorie concettuali e interpretative.
Oggi appare più chiaro come il «caso Ledda» fu tale, soprattutto per l’abile operazione portata avanti da un mercato editoriale non ignaro - per sua stessa natura e ragion d’essere - dei gusti e delle tendenze di una cultura osservante allora generalmente predisposta ad accettare, dentro e fuori dell’isola, cliché rappresentativi spesso lontani da un universo antropologico peculiare e complesso, con propria lingua, propri valori, propri reticoli di esclusione e inclusione, proprie leggi e proprie consuetudini («fatali e necessarie risultanti di un millenario processo di adattamento alle difficili condizioni naturali») difficilmente traducibili attraverso codici e sistemi segnici di inappartenenza. La parabola esistenziale percorsa dal giovane Gavino aveva in sé tutti gli ingredienti così da poter corrispondere, in modo adeguato, ad una richiesta, diffusa soprattutto in ambito piccolo-borghese, di modernizzazione del paese e di fuoriuscita da certi modelli economici e produttivi come risposta alla domanda di sviluppo, emancipazione e riscatto sociale proveniente dai ceti subalterni.
Ma quella parabola, che parte da lontano e abbraccia quasi un ventennio della storia isolana, per essere compresa andrebbe ricollocata entro le giuste coordinate storiche e culturali. Il secondo dopoguerra aveva rappresentato, pur fra contraddizioni e ritardi, un momento di notevole accelerazione dei processi di mutazione sociale ed economica. Gli anni Cinquanta e Sessanta, periodo di ambientazione del romanzo, sono, in Italia, quelli della ricostruzione e del rilancio economico post bellico, e, in Sardegna, gli anni dell’eradicazione della malaria, della riforma agraria e della battaglia per la Rinascita; ma anche quelli dell’emigrazione, dell’arretratezza infrastrutturale, del mito dell’industrializzazione come unica soluzione ad una crisi profonda e, in alcune aree, drammatica. Da parte degli intellettuali più avvertiti si era, quasi da subito, manifestata la consapevolezza di trovarsi di fronte a una svolta epocale, a una radicale trasformazione della fisionomia e dell’identità culturale della società sarda. La percezione e la rappresentazione narrativa di quella mutazione antropologica si realizzò in modi diversi, con differenti opzioni letterarie e con scelte ideologiche non di rado contrapposte.
Il dibattito che aveva accompagnato l’elaborazione dello Statuto speciale (varato nel 1948) e seguito le prime fasi di vita della Regione autonoma, culminando nella progettazione e nell’approvazione del «Piano di rinascita» (1961) e nella valutazione dei modi in cui tale «Piano»venne poi attuato, si era potuto esprimere, nella diversità delle sue opinioni, per mezzo di un insieme di iniziative editoriali[4].
L’opera di Gavino Ledda si colloca, a suo modo e con un alto tasso di eversività, storicamente dentro quelle coordinate di senso che vedono, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, la letteratura in Sardegna intraprendere, fra sperimentazione e ricerca, nuovi percorsi espressivi e formali tesi a rappresentare una terra che, in chiave più o meno simbolica, continua ad essere il principale oggetto di scrittura.
Gli autori, non indifferenti a una intertestualità sempre più ampia ma soprattutto condizionati dalla nascita e dalla espansione di un nuovo pubblico, si dividono prima di tutto per opzione linguistica. Da una parte la produzione in lingua sarda che, grazie al premio Ozieri[5], riattiva un importante e fecondo circuito interno della comunicazione letteraria (con propri canali, codici, contesti, destinatari); una rinnovata proposta, visibile, importante, lontana dai toni sublimi della precedente lirica ottocentesca, che sa confrontarsi, contaminandosi, con la contemporanea poesia italiana e straniera, più viva e consapevole[6].
Dall’altra la produzione in lingua italiana, più orientata verso gli interessi e i gusti letterari di un pubblico italofono, d’oltremare, decisamente più ampio e più inserito nella cosiddetta tradizione «nazionale».
2. L’impalcatura diegetica del romanzo è fra le più semplici e lineari[7], generalmente ordinata nella dispositio logico-cronologica degli eventi, ben ritmata per scansione e durata delle sequenze e per variazioni del campo visivo. Relativamente alla struttura segnica, ruolo non marginale rivestono gli attributi e gli informanti spazio-temporali e le unità discorsive che si rapportano più direttamente all’istanza narrativa (weltanshauungen e visione del mondo). La narrazione si concentra fondamentalmente sul rapporto binario, di dipendenza (materiale e psicologica), antagonismo e conflitto, che intercorre fra un padre e un figlio. Una serie di relazioni fattuali, sentimentali ed emotive collegano fra loro i due protagonisti lungo una fitta trama di componenti e di codici (comportamentali, gestuali e prossemici) che interagiscono producendo il significato complessivo del racconto.
La figura paterna, tirannica e opprimente, risulta esclusivamente filtrata dal punto di vista del narratore autodiegetico, che da subito la introduce con un’ottica di presentazione significativa. Infatti, già da quando comincia a esistere e ad agire sulla scena, si comprende quanto essa rappresenti uno dei motori principali della dinamica narrativa e come dal suo essere e dal suo fare partano molte delle azioni che muovono la fabula. La sua centralità nella narrazione non si esplica attraverso un ruolo attanziale particolarmente ricco, quanto piuttosto nel fatto che comunque egli resti, in praesentia o in absentia, il vero centro focale e locutorio, causa prima del complesso di azioni e di funzioni che caratterizzano assiologia, prassi e modalità dell’io narrato:
La storia, però, stava tramando ai miei danni inesorabilmente come lo scorrere del tempo. E una mattina di febbraio, mentre la maestra si sforzava di farmi scrivere alla lavagna, mio padre, sorretto dalla convinzione morale di essere il mio proprietario, con lo sguardo terrificante di un falco affamato (de unu astore famidu) dalla strada fulminò la scuola. La raggiunse con impeto fragoroso piombando in classe. Avanzò fino alla cattedra senza parola e salutò la maestra con un secco buongiorno. «Buon giorno», gli rispose la maestra mentre lui le s’impalò davanti irrigidito e seccato dalla situazione. Alla sua vista gli scolari zittirono tutti sui banchi. Mio padre venne subito al sodo. La sua fierezza e la sua imponenza dominavano nell’abbigliamento pastorale: pantaloni di fustagno, giacca di velluto liscio, scarponi e berretto rigido (craccas e zizía)[8].
Nessuna atmosfera preparatoria introduce la comparsa del ‘patriarca’ Abramo. Per renderne più incisiva la presentazione, dopo un intervento metadiegetico, tipico di una funzione ideologica («[…] sorretto dalla convinzione morale di essere il mio proprietario […]»), il narratore sceglie, con cruda ed efficace immediatezza espressiva, la messa in contatto mediata da una figura retorica ricca di valenza semantica che già include e preconizza la simbologia del personaggio e il giudizio autorale sullo stesso («[…] con lo sguardo terrificato di un falco affamato (de unu astore famidu) dalla strada fulminò la scuola […]»); e attraverso la descrizione della sua pragmatica, figlia di un’indole impulsiva e scontrosa («La raggiunse con impeto fragoroso piombando in classe. Avanzò fino alla cattedra senza parola e salutò la maestra con un secco buongiorno. «Buon giorno», gli rispose la maestra mentre lui le s’impalò davanti irrigidito e seccato dalla situazione») si arriva al ritratto esteriore speculare ad una ben precisa identità temperamentale («La sua fierezza e la sua imponenza dominavano nell’abbigliamento pastorale: pantaloni di fustagno, giacca di velluto liscio, scarponi e berretto rigido […]»).
In questa sorta di «partita a due», segnata da un’incomunicabilità lacerante e profonda, un posto non secondario occupa, per il giovane Gavino, l’area dei sentimenti, delle emozioni e delle disposizioni più segrete; un paesaggio dell’anima entro cui si accavallano, in modo tumultuoso e mutevole, paure, turbamenti, rancori, odi, ripulse, ma anche volontà, caparbietà, resistenza, pulsioni dirompenti e non disvelate che corrono come siluri sotto il pelo dell’acqua. Due mondi, due generazioni, due concezioni segnate da un’irriducibile contrapposizione, confliggono prima ancora che sul terreno della storia, sul piano dell’interiorità e del vissuto. In un caso il ‘persecutore’, Abramo, patriarca, padre e padrone, personaggio statico, a una dimensione, immodificabile come il mondo arcaico che rappresenta. Dall’altra la ‘vittima-eroe’, Gavino, suo figlio, figura complessa, imprevedibile, contraddittoria, proiettata verso il cambiamento, alla ricerca di una nuova condizione esistenziale e culturale. Siffatto rapporto, asimmetrico, ma nel contempo simbiotico e competitivo, dove il legame che si struttura con l’altro si gioca tutto dentro una serrata dimensione agonistica, si risolve paradossalmente in un’altra forma di dipendenza. La rabbia di sfida che allaga l’animus di Gavino matura in una disperazione e in una solitudine distruttive in cui l’altro viene percepito come nemico. In realtà dietro la sua ribellione si cela una fragilità che è il frutto amaro di questa sorta di analfabetismo relazionale; in tal senso le azioni della ‘vittima’ sembrano acquistare un valore di pura sopravvivenza affettiva.
Ogni generazione ha dovuto affrontare lo scontro con la figura paterna intesa come metafora dell’autorità e del potere, perché il padre diventa il punto di riferimento, nella famiglia, della legge. Ancor di più questo sembra avvenire nella comunità del protagonista, lì dove il patriarca, l’uomo più anziano, custode delle tradizioni e dei saperi, è colui che istituisce la morale e che idealmente rappresenta il legame con le radici. Allontanarsi dal padre, contestarne l’autorità e il ruolo, vuol dire, almeno in un primo momento, affrancarsi dal mondo che egli rappresenta, diventa l’atto necessario per poter crescere e poter ritrovare quella libertà di scelta dinanzi alla scacchiera della vita:
Mi capitava di rimuginare, in lunghi silenzi, sulle implicazioni del dramma che la mia famiglia stava vivendo. Mi sforzai di immaginarmi integrato nell’ambiente di Siligo e allora mi sembrò naturale che ai pastori succedesse come ai cani quando il padrone serve da mangiare nel secchio abituale. Mi sembrò, anzi, strano che non avessi considerato prima la situazione da questo punto di vista: rivedevo quei cani famelici tesi a divorare a gara e a strapparsi di bocca il cibo e mi immedesimavo a tal punto che la casa ormai mi pareva un immenso secchio dal quale io, benché subalterno, non volevo staccarmi. Il comportamento dei cani, impazienti e voraci, rispecchiava perfettamente quello dei servi. E mio padre, come ogni pastore, era vissuto sempre a contatto col mondo degli animali e aveva finito per accettare come propria questa forma di vita animalesca. Aveva visto sempre il cane più grosso digrignare i denti e i cani subalterni allontanarsi dal secchio secondo un ordine temporale che rispecchiava esattamente l’idoneità alla lotta dì ogni singolo cane. L’ordine sociale del pastore coincideva con un intimo ordine divenuto biologico. Contravvenire alle leggi del padre equivaleva, dunque, a negare l’ordine naturale e immutabile delle cose[9].
Nella migliore produzione letteraria europea, dinamicità o staticità rimandano spesso alla weltanschauung dell’autore. Vi è un dinamismo esterno che rispecchia la convinzione che l’uomo possa emanciparsi, modificare la propria condizione sociale ed economica e che comunque non possa essere relegato, nella vita, in una posizione di eterna subalternità e irrevocabile sconfitta (si pensi nell’Ottocento ai personaggi zoliani e verghiani e nel Novecento a quelli pasoliniani). Esiste altresì un dinamismo interno che pur manifestando sfiducia nella possibilità di mutare le condizioni storiche, ciononostante attesta la convinzione che sia possibile raggiungere sul piano individuale uno stato di saggezza e maturità (si pensi ad Hesse, alla stagione del grande romanzo decadentista, ai personaggi sveviani e di una parte della migliore letteratura contemporanea). La mancata sintonia tra l’uomo moderno e il suo ambiente di vita e la conseguente difficile integrazione tra il singolo individuo e gli altri, hanno tra i motivi d’origine quella crisi dell’io che appare come uno dei temi più ricorrenti della letteratura novecentesca. Spesso si tratta di una produzione che non può fare a meno di confrontarsi con le grandi innovazioni che segnano definitivamente il passaggio epocale dall’antica civiltà contadina alla modernità urbana. Per molti di questi interpreti della crisi però, il percorso risulta inverso rispetto a quello intrapreso dallo scrittore di Siligo.
Prima di tutto la memoria, come recupero di un mondo originario, ancestrale, primitivo, che proprio la cultura europea del Novecento aveva recuperato come unica risposta al disagio esistenziale creato dalla società industriale. Quel mondo che, per narratori e poeti (si pensi ad esempio alla Sardegna della Deledda e di Dessì), nell’atto stesso della creazione artistica, paradossalmente ritornava ad essere centro e non più periferia, luogo mitico e archetipo del sentimento lirico. Solo oggi, da un punto di vista antropologico, diventa agevole comprendere il ruolo di questi scrittori nella loro reale portata centrifuga e non solo di sogno, nostalgia ed evasione in un paesaggio idillico e in una cultura non dominata dalla macchina industriale. La difesa degli antichi saperi antropologici da cui nasce l’equilibrio dei sistemi sociali primitivi è il primo passo per il recupero di una vita emozionale pienamente espressa nei modi aggreganti e non disgreganti propri delle società rurali, e per la riconquista di quel «supplemento d’anima» che le logiche del positivismo avevano per lungo tempo negato all’uomo. Una crisi che giustifica la necessità che artisti ed intellettuali di inizio secolo avvertono, di andare alla ricerca di nuovi spazi antropici incontaminati, dove l’uomo vive ancora secondo le regole di un ethos primitivo, in gruppi sociali permeati da quella «mistica religiosità» su cui aveva riflettuto Bergson[10]. La salvaguardia degli autarchici sistemi produttivi preindustriali basati sulla manualità e sul soddisfacimento delle capacità creative dell’uomo, sembra per il filosofo francese, la soluzione per combattere l’alienazione massificante prodotta dall’industrializzazione moderna[11].
La memoria si traduce in un viaggio del pensiero e dell’anima, molto vicino per taluni aspetti a quello vissuto da tutti quegli scrittori, come il Verga de I Malavoglia, i quali, giunti «al culmine della propria dispiegata civiltà», comprendono «profondamente la validità morale di quel mondo guardato dagli altri con tanta ritrosia»[12]. Essa diviene pertanto lo strumento attraverso il quale si ricostruisce la propria identità e si dà un fondamento alla coscienza di sé. In questo senso si comprende come l’operazione letteraria di molti scrittori divenga altresì una precisa operazione culturale.
Nel caso di Gavino Ledda la questione rimane contraddittoria e fondamentalmente irrisolta. Padre Padrone sembra voler sovvertire un topos accettato e condiviso da una buona parte degli artisti sardi almeno sino alla prima metà del Novecento, cioè di un mondo sardo, più precisamente agro-pastorale, proprio perché malfatato e dolente, orgogliosamente difeso e, da taluni, significativamente proiettato in una dimensione edenica se non trasfigurato in un luogo di evasione mitica, dove l’uomo è riscoperto nella sua quotidianeità laboriosa e la natura comunque percepita come spazio idillico, incontaminato, carico di emozioni e suggestioni incantatorie. Per loro, interpreti raffinati di un patrimonio spirituale di popolo che deriva da una storia millenaria, il pericolo, retaggio di paure ataviche, arriva semmai dall’esterno, dal mare, dai popoli giunti «per razziare, devastare e conquistare, per imporre, in molti casi, forme di governo e leggi estranee e non corrispondenti ai voleri e ai bisogni dei sardi»[13]. Il segreto e la forza della narrativa deleddiana, ad esempio, stanno proprio in questa stratificata e complessa rappresentazione dell’automodello sardo, nella proiezione simbolica di un universale concreto: l’isola intesa come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi.
La scrittura ‘selvaggia’ di Ledda, viceversa, pur con qualche eccezione, colpisce al contrario, consegnandoci un quadro nel suo complesso crudo e impietoso su un microcosmo ferino, chiuso, totalizzante e totalitario, fatto di miseria e abbrutimento, dove l’uomo, costretto da una quotidiana lotta per la sopravvivenza, è pervaso di una crudeltà primitiva. La salvezza è all’esterno. Una lettura semiotica del racconto ci dice che, non di rado, nel rapporto in/es, questa dinamica centrifuga si traduce metaforicamente in statuti dicotomici forti e perentori: barbarie vs civiltà, reclusione vs libertà, analfabetismo vs conoscenza, conservazione vs progresso.
Insoddisfatto del presente e continuamente risospinto nel passato, Gavino trova il coraggio di pensare per sé un futuro migliore, ma l’‘istruzione’ e la ‘libertà’ non sembrano risolvere i suoi problemi, ma piuttosto spostano in avanti le contraddizioni senza offrirgli gli strumenti per poterle affrontare. Egli cerca una strada nuova, quella del riscatto e della valorizzazione di sé, tutta al di fuori di quella dimensione educativa che in realtà lo aveva nutrito e formato:
Un solo anno di campagna mi aveva maturato di almeno dieci anni rispetto a loro. Alla scuola del babbo si imparavano cose ben più profonde di quelle aste e di quelle consonanti che loro ora sapevano a memoria […] Confesso che non vedevo l’ora di ritornare in campagna. Ormai mi ero affezionato a tutto ciò che vi avevo lasciato e mi ero abituato a sentire e a capire quel silenzio che un anno prima mi faceva paura. Sulla terra ormai non esisteva più nulla di tanto apprezzabile e amabile quanto il nostro campo con i suoi alberi e le sue scoscesità; Rusigabedra e le pecore. La natura tutta del nostro campo era qualcosa di cui ormai io facevo parte. Ero rinato con essa. Ero entrato e ricresciuto nel mondo animale, minerale e vegetale e non potevo più sentirmene fuori.[14]
Il suo apprendimento, avvenuto per esperienza direttamente vissuta e sperimentato emozionalmente, si realizza dentro un contesto ambientale difficile e si regge, come ogni percorso educativo, sull’imparare a conoscere, a fare ma soprattutto ad essere; ossia sulla capacità di acquisire gli strumenti della comprensione così da essere capaci di agire creativamente nell’ambiente circostante e poter in tal modo costruire una propria identità culturale e umana.
Più il contesto si fa ostile e inesorabile, più i saperi confliggono con l’educazione e con i modi dell’apprendimento. Per questa ragione il cono d’ombra del padre, a fasi intermittenti, sembra proiettarsi su un intero ambiente oscurandolo e mortificandolo. Non c’è pietas, non c’è compassione. La sua angoscia genera piuttosto un’ironia amara e beffarda.
Ecco che allora il conflitto, di natura prevalentemente interpersonale e relazionale, per essere risolto richiede la fuoriuscita dallo stesso microcosmo dentro cui agiscono i due attori; una scelta di fuga dal proprio mondo per riattivarsi e ricollocarsi. Ma l’atto di rottura, rievocato dall’io narrante sul filo di una memoria sofferta che non guarisce e nel contempo non rimuove, rimane sostanzialmente irrisolto perché irrisolvibile rimane comunque il problema di una identità che voglia essere altro da sé pur nella lucida denuncia dei limiti di una comunità d’appartenenza spesso chiusa e autoritaria. Il cercare ‘virtute’ e ‘conoscenza’ recidendo irreversibilmente tutto ciò che riporta al vissuto e all’identità antropologica del soggetto, non risolve il problema del rapporto con le proprie radici e svuota di senso la giusta e legittima aspirazione di crescita nella libertà e nella consapevolezza. Un complesso di inferiorità sentito e sofferto che dunque non aiuta quella ri-appropriazione umana tanto agognata.
Solo la fuga e il distacco dal padre parrebbe, a un certo punto, presagire un percorso di ritorno al mondo che gli è appartenuto:
Il mio sardo lì non lo capiva nessuno. Io ero «muto» e senza una lingua: come un essere inferiore che non poteva esprimere quello che pensava. Per parlare allora dovevo fare più o meno come, facevo a Baddevrustana nel silenzio del bosco dietro il gregge. Dovevo rientrare nel ‘mio’ mondo che fortunatamente anche a distanza mi rapiva e mi distoglieva da quella desolazione. Il mio cervello, disperato, come per creare un rifugio al nuovo ambiente ostile, secerneva fantasia viva: creava immagini. E con la disperata nostalgia, non potendo comunicare con altri, riviveva e si rievocava, gelosamente disperato, il mondo che conosceva, anche se lo aveva lasciato al di là del mare: si rifiutava completamente di conoscere il mondo militare. Voleva vedere natura senza divisa. Dentro quelle mura annerite e scalcinate l’unica compagnia era sempre Baddevrustana. Sentivo sempre la voce di mio padre e dei miei fratelli: il raglio di Pacifico e il belato noto di qualche pecora. In una parola i dialetti della natura che io conoscevo annullavano il caos dei rumori e dei fatti di quella caserma ed erano l’unico sangue con cui palpitava il mio cuore che stava rischiando l’infarto. Uno spirito ferino mi ruggiva continuamente e mi stava sempre suggerendo di saltare quelle mura. Ma riuscii a controllarlo anche se come un pendolo gigantesco, oscillavo sbattendo ora la testa, ora i piedi sulla caserma. Spinto dalla disperazione, feci di tutto per mettermi a rapporto dal comandante di compagnia, per pregarlo di mandarmi di nuovo a Baddevrustana tra le mie pecore, che sognavo ad occhi aperti[15].
Con qualche eccezione, si diceva, che potrebbe apparire contraddittoria, ma che in realtà risponde all’esigenza legittima e per molti versi inevitabile di infrangere il cerchio della solitudine e sconfiggere quel mutismo che è un urlo strozzato. Infatti, a un certo punto accade che una via di salvezza da quell’incomunicabilità assordante in cui lo aveva relegato il conflitto col padre, Gavino la trovi internamente, nel paesaggio, nel «vago immaginar», nel rapporto di ritrovata sintonia e interazione con il mondo naturale e con i suoi linguaggi. Si propone così il tema panico dell’identificazione del personaggio con la vita vegetale e animale e della sua rispondenza con l’essenza stessa, misteriosa e segreta delle cose colte attraverso un’opera di auscultazione rigenerante che infonde lenimento e conforto. La sfera dell’io sembra confondersi con quella di una realtà filtrata e trasfigurata dal protagonista, nella quale l’uomo può diventare natura e la natura partecipando alle vicende umane sa tendere all’antropomorfismo. Sono queste le pagine più belle e rivelatrici del libro, venate di un lirismo intenso e autenticamente sentito. L’io narrato si schiude davanti a una bellezza catartica, ancestrale e archetipica, proiettando attraverso la sua rappresentazione del mondo, che diventa il suo più appassionato discorso del mondo, tutta la propria ricchezza affettiva ed emotiva inespressa:
La solitudine del bosco e il silenzio profondo dell’ambiente, interrotto solo dal vento, dai tuoni o dallo scoppio del temporale in lontananza d’inverno, orchestrato dal canto degli uccelli e dal crogiolarsi della natura in primavera, ora per me non era più silenzio. A furia di ascoltarlo avevo imparato a capirlo e mi era divenuto un linguaggio segreto per cui tutto mi sembrava animato, parlante e in movimento. E almeno al livello affettivo della mia fantasia potevo comprenderlo e parlarci. Quasi conoscessi tutti i dialetti della natura e li parlassi correttamente al punto da impostare con essa, nel mio silenzio raccolto, le uniche conversazioni che mi erano possibili. Il discorso sulla matematica naturale di mio padre, ormai, era divenuto una cosa normale e spontanea. Non solo avevo imparato a conoscere i nomi dei punti e dei particolari del campo come avevano fatto gli anziani. Ero andato oltre. Sulla loro scia, senza che me ne accorgessi, anch’io denominavo la natura. A ogni albero, a ogni macigno, a ogni pecora, a ogni punto o conformazione del terreno del “nostro” campo o dei monti circostanti o dell’orizzonte, avevo appioppato un nomignolo affettivo che tenevo segretamente nascosto in quel silenzio con cui, in un certo modo, ogni cosa mi parlava e per me era viva. La mia fantasia trasferiva nomi e figure, vissute durante la breve infanzia sociale di Siligo, nelle cose o nella realtà fisica del nostro campo o dell’orizzonte che osservavo vivendolo dalla capanna o dal bosco. Tutta la realtà, dagli alberi ai picchi delle montagne, dalle rocce alle grotte, dalle pecore alle bestie, la rassomigliavo a persone o cose che io, occasionalmente, avevo visto altrove. A causa della solitudine, la natura per me rappresentava un “tu” indefinito: l’unico “tu” amico con cui poter comunicare senza vergogna né soggezione. Ogni particolare della realtà circostante mi evocava un nome che la animava e me la rendeva parlante. Thiu Pulinari (un vecchio pastore del vicinato che vedevo occasionalmente mentre si abbeverava le pecore) era una roccia lontana che spiccava all’orizzonte su un monte. Su Gobbe (un povero gobbo che avevo conosciuto nella mia infanzia di Siligo e che era divenuto tale sin da bambino a causa di una incornata di un montone) ora per me era un albero gobbo del nostro campo. Questa lingua intima tra me e la natura che, in fondo, era la lingua del silenzio, mi era divenuta naturale e familiare quasi la realtà fosse il silenzio e le cose fossero le sue parole[16].
La lingua del romanzo è un italiano variegato e composito, permeato nelle strutture sintagmatiche e nel contingente lessicale di elementi allogeni e contrassegnato stilisticamente dal sistematico ondivagare di lingua letteraria e espressività locale. Il sardo coabita, dentro questo fermento, da una parte in modo simbiotico, interferendo e contaminando le strutture organizzative più profonde dell’italiano, dall’altro in modo oppositivo, evidenziandone l’alterità e lo scarto per mezzo di differenti soluzioni grafiche (corsivo e parentesi). Del resto la trasposizione in finzione letteraria di un microcosmo sardofono, attraverso l’uso di un idioma di inappartenenza, aveva già convinto altri scrittori sardi - orientati a riprodurre mimeticamente le cadenze del mondo narrato (si pensi alla Deledda) - ad intraprendere la difficile strada del mistilinguismo e dell’innesto sul tronco della lingua italiana di elementi autoctoni (calchi, sardismi, soluzioni bilingui), e a ricercare in virtù di ciò quelle soluzioni espressive, soprattutto nelle parti dialogate, più consone e rispondenti all’universo antropologico rappresentato.
Se la lingua ha funzioni creative nel senso che, in quanto classificazione e disposizione del flusso esperienziale, si traduce in orientamento del mondo, quel rapporto dicotomico in/es, non poteva non trasferirsi, per l’auctor, sul piano delle opzioni linguistiche. Non c’è senso che diamo al mondo che non sia nominato, e il mondo dei significati non è altro che quello del linguaggio; esso sta «nel più profondo della mente umana, tesoro di memorie ereditate dall’individuo e dal gruppo, coscienza vigile che ricorda e ammonisce.»[17] Nelle pagine del nostro racconto si assiste alla messa in scena di un mondo parlato in due lingue che contradditoriamente si inseguono e si contrappongono dentro una tensione che inchioda il rapporto in uno spazio liminare, lasciandolo, anche in questo caso, fondamentalmente irrisolto.
Note
[1] Gavino Ledda nasce a Siligo, centro del Meilogu a pochi chilometri da Sassari, il trenta dicembre 1938. Trascorre l’infanzia e l’adolescenza nelle campagne del suo paese a ramingare dietro greggi e armenti fino al giugno del 1958 quando si arruola volontario nell’esercito. Dopo essere diventato, negli anni 1958-59, sergente esperto in radiotecnica alla scuola di trasmissioni della Cecchignola, nel 1961 è a Pisa dove consegue, da privatista, la licenza media e dove, nell’aprile del 1962, si congeda dalla vita militare. Sempre da privatista consegue la licenza ginnasiale nel liceo di Ozieri e nel 1964 la maturità classica. Iscrittosi nella facoltà di Lettere dell’Università di Roma si laurea il cinque dicembre del 1969. Nell’estate del 1970 scrive Padre padrone in forma di saggio e lo ripensa, negli anni 1972-74, come opera narrativa. Il romanzo, pubblicato nella primavera del 1975 dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, conoscerà un enorme successo in Italia e all’estero. Vince il «Premio Viareggio» e ispira nel 1977 l’omonimo film dei fratelli Taviani. L’opera, che ha nella colonna sonora e musicale di Egisto Macchi il suo versante più inventivo, «pur con durezze didattiche e scorie intellettualistiche, è un film razionale e lucido che assomiglia al paesaggio sardo: ventoso e scabro, enigmatico e violento, soffuso di una luce che gli dà la nobiltà maestosa di un quadro antico». Prodotto dalla RAI, viene premiato con la Palma d’oro al Festival di Cannes da una giuria presieduta da Roberto Rossellini. Nel 1977 esce Lingua di falce, storia di una comunità sarda che fa i conti con la modernità e con i processi di cambiamento e mutazione che questa determina; seguiranno Aurum tellus (1992) e l’opera I cimenti dell’agnello (1995), raccolta di novelle e prose narrative scritte tra gli anni Settanta e Ottanta. Nel 1998 è uscita presso Rizzoli la ristampa di Padre padrone con l’inedito Recanto. Ledda si è cimentato anche con il cinema ed è autore di Ybris, film da lui stesso diretto e interpretato.
[2] Per una bibliografia critica essenziale si vedano: A. Tagliaferri, Una lotta per uscire da un’era nuragica, «Il Giorno», 23 aprile 1975; A. Giuliani, Un pastore tra mito e conoscenza, «Il Messaggero», 21 maggio 1975; E. Ferrero, Il servo pastore all’Università, «La Stampa», 6 giugno 1975; T. De Mauro, Due libri all’interno del linguaggio, «L’Ora», 6 giugno 1975; G. Cerina, Padre e padrone. L’educazione di un pastore, «Archivio sardo del movimento operaio, contadino e autonomistico», n. 4-5, 1975, 340-4; E. Le Roy Ladurie, L’educazione di un pastore, «Le Monde», 23 settembre 1977; A.a. V.v., Gavino Ledda dopo «Padre e padrone», a c. di M. Brigaglia, Cagliari, Della Torre, 1978; G. Pirodda, Un caso editoriale, «Rinascita sarda», giugno 1979; N. Tanda, Letterature e lingue in Sardegna, Sassari, Edes, 1984, 56-7; G. Marci, Narrativa sarda del Novecento. Immagini e sentimento dell'identità, Cagliari, CUEC, 1991, 296-307; A. Grillini, Il ritorno di Padre e padrone, «Corriere del Ticino», 5-6 settembre 1998.
[3] Sarebbe a questo proposito interessante, attraverso un intervento della filologia d’autore, indagare la documentazione manoscritta e dattiloscritta precedente all’edizione a stampa. Uno studio della ‘genetica’ del testo e dell’avantesto, relativo ai processi correttori e ai diversi stadi di elaborazione, consentirebbe di ricostruirne la storia redazionale per meglio comprendere il rapporto tra l’autore e l’opera intercorso a partire dalla fase di gestazione.
[4] Accanto ai principali quotidiani «L’Unione sarda» e «La Nuova Sardegna» vanno ricordate le numerose riviste pubblicate dalla fine della guerra, con crescente vigore lungo gli anni Cinquanta e Sessanta. Fra queste bisogna almeno segnalare «Riscossa» (1945), diretta da Francesco Spanu Satta, alla quale collaborò Giuseppe Dessì, «Ichnusa» (1949), diretta da Antonio Pigliaru, «S’Ischiglia» (1949), diretta da Angelo Dettori, «Il Montiferru» (1955) diretto da Antonio Cossu, «Rinascita sarda» (1951), diretta, in tre successive serie, da Velio Spano, Renzo Laconi e Umberto Cardia, «Il Bogino» (1960), diretto da Ignazio De Magistris, «Quaderni bolotanesi» (1975), diretti da Italo Bussa, «La Grotta della vipera» (1975), diretta da Antonio Cossu.
[5] Il «Premio Città di Ozieri» fu fondato nel 1956 dal poeta Tonino Ledda; esso ha contribuito alla diffusione della poesia sarda, come più tardi faranno altri premi più o meno noti, tra i quali occorre almeno ricordare il «Romangia» (1978), organizzato dai comuni di Sennori e Sorso e quello intitolato a Pompeo Calvia.
[6] «Hanno abbandonato gli appelli e le denuncie, il lungo elenco di doglianze. Hanno privilegiato piuttosto lo scavo nel vissuto del soggetto, nell’intimo della coscienza. Hanno cominciato proprio i poeti meno ‘colti’, i meno ‘laureati’, quelli che la scuola non aveva coinvolto in una concezione della poesia assoluta e impraticabile, nel tono solenne e sublime, non condivisibile da chi della poesia aveva un’idea più modesta e quotidiana e ne faceva un uso funzionale alle esigenze di comunicazione culturale della società. Il salto di qualità, occorre dirlo, è stato impetuoso, un’apertura d’orizzonte, una schiarita, una ventata d’aria nuova: ‘a bentanas apertas’, appunto, ‘a su tempu nobu promissu’, ‘a Sardigna barandilla de mares e de chelos’. Un’avventura straordinaria, veramente, come ha scritto, lapidariamente Pietro Mura, ‘un’odissea ‘e rimas nobas’. […] Pietro Mura ha iniziato, e con lui […] Benvenuto Lobina, un’operazione letteraria nuova. Hanno messo in moto la funzione poetica della vecchia lingua sarda, e hanno usato sperimentalmente i procedimenti formali dei linguaggio poetico contemporaneo, lo hanno adeguato, con mediazione ardita, alla straordinaria meraviglia di nuovi significanti e nuovi significati. Hanno riplasmato l’immaginario sardo con una scansione lirica tutta interna, e hanno ricreato una lingua poetica scavata nelle profondità dei soggetto, risolvendola in valori fonosimbolici del tutto nuovi e insospettati. Non solo Mura, non solo Lobina, si sono assoggettati alla scuola del Novecento. Una folta schiera di poeti, “astronauti sembravamo”, dice uno di loro (Ubaldo Piga), ha prodotto una poesia in grado di permeare tutti, di coinvolgere gli strati sociali alti e quelli più umili, poeti colti dunque e poeti che la tradizione orale, almeno inizialmente, aveva alimentato e nutrito. Un’operazione semantica, o meglio semiotica, che ha rimesso in discussione quel modello culturale che la società degli anni Sessanta proponeva e che anche i “Novissimi” contestavano, quello della monocultura industriale e dell’omologazione» (N. Tanda, Un’odissea de rimas nobas. Antologia di poesia sarda, in A.a.V.v., Si scrive. Rivista di letteratura, Cremona, 1996, 91).
[7] Strappato traumaticamente alla scuola dopo un mese scarso di frequenza, perché il padre è convinto che studiare sia un privilegio dei ricchi, Gavino, ad appena sei anni, viene mandato a custodire il gregge di famiglia nella tanca di Baddevrustana, poco lontana dal paese, e da subito iniziato ad una nuova vita, quella del pastore, improntata al rigore, alle restrizioni e alla fatica rude. Catapultato in una dimensione popolata di solitudine, paure e turbamenti profondi, lontano dalla famiglia e dalla comunità, il bambino conosce un apprendistato durissimo, contrassegnato da un’educazione rigida e oppressiva e da una sorta di addestramento per la sopravvivenza in un ambiente ricco di ostacoli, insidie e difficoltà di ogni genere. Una tale pedagogia, primitiva, inflessibile, pragmatica, che non ammette contraddittorio e dialogo ma solo obbedienza e sottomissione, ben presto sviluppa nell’intimo del ragazzo una ribellione acerba e risoluta, repressa dal padre con rabbia e inusitata ferocia, e l’aspirazione a una vita migliore oltre l’angusto recinto di un’insopportabile esistenza fino a quel momento ‘muta’ e ‘analfabeta’. L’occasione di fuoriuscita da quel mondo che non sente più suo, gli si presenta a vent’anni. Conseguita la licenza elementare, e tentata la strada dell’emigrazione, Gavino realizza che solo l’arruolamento volontario nell’esercito gli potrà permettere di lasciare l’isola ed entrare in contatto con il ‘mondo’, imparando l’italiano e facendosi finalmente un’istruzione. Tornato a Siligo, lavora i campi ma non abbandona gli studi. La tensione tra padre e figlio aumenta fino a scaturire in una violenta lite che dà al giovane la forza di lasciare la casa paterna e di ripartire per il continente.
[8] G. Ledda, Padre e padrone. L’educazione di un pastore [1975], a c. di M. Vedovelli, Torino, Loescher, 1980 [settima ristampa], 15-6.
[9] G. Ledda, Padre e padrone …, 235.
[10] H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Paris, Presses Universitaires de France, 1932 (trad. di M. Vinciguerra, Milano, 1973, 227-70).
[11] N. Tanda, La letteratura in Sardegna secondo Sapegno: linee teoriche, in Dal mito dell’Isola all’Isola del mito, Roma, Bulzoni, 1992, 208.
[12] A.M. Cirese, Intellettuali folklore e istinto di classe, Torino, Einaudi, 1976, 6.
[13] G. Marci, Narrativa sarda del Novecento. Immagini e sentimento dell'identità, Cagliari, CUEC, 1991, 15.
[14] G. Ledda, Padre e padrone …, 263.
[15] G. Ledda, Padre e padrone …, 186.
[16] G. Ledda, Padre e padrone …, 64
[17] L. Hjelmslev, Fondamenti della teoria del linguaggio [Prolegomena to a Theory of Language, 1961], introd. e trad. di G. Lepschy, Torino, Einaudi, 1987, 5.
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