Il Tamburino Sardo


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scuola delle complessità

Rubrica Dispensa

LA SCUOLA DELLE COMPLESSITÀ E L’ENIGMA DELLA TRASPARENZA?
(
Giuseppe Pulina)

(Relazione per il XII Congresso UIL – Scuola di Rovigo, “Cavalcando, in Italia, l’onda anomala della scuola” – Rovigo, Auditorium IRAS, 30-31 ottobre 2009).

I.


Se si volesse dare un sottotitolo alla breve relazione che vi presenterò, questo potrebbe essere “Insegnante e studente – due mondi e una scuola”. Il titolo è invece “La scuola delle complessità e l’enigma della trasparenza”. Titolo asciutto, che a stento cela il vero nucleo delle riflessioni che seguiranno: lo studente, l’insegnante, gli estremi reciprocamente implicantisi di quella relazione che James Hillman ha chiamato la “coppia archetipica insegnante-studente”[1]. Una coppia che deve, diciamo così, riconciliarsi, rinnovare il patto formativo che la costituisce, mirando al compimento di un progetto. Non c’è vera formazione, se il percorso attraverso il quale si deve strutturare e prendere corpo non ha prospettiva e non è finalizzato ad uno scopo. Chiediamoci: diciamo veramente ai nostri studenti che il loro impegno avrà un premio finale? che anche le fatiche dell’intelligenza hanno uno scopo? Quando, da studente liceale, il mio vecchio preside veniva in aula a farci la solita ramanzina, ricordandoci che noi, perché liceali, saremmo diventati la classe dirigente di questo Paese, confesso che a me e ai miei compagni veniva da sorridere, e, se non fosse stato per il rispetto che quell’uomo avanti con gli anni, dal buffo portamento e con baffi da generale delle favole sapeva imporre con la sua autorità, la reazione (mia e dei miei compagni) sarebbe stata, di sicuro, meno controllata e più irriverente. Però quel preside aveva qualcosa da promettere: era sì il lascito della vecchia scuola gentiliana, ma era pur sempre una promessa. Qualcuno diceva di credere in noi; diceva che avremmo ereditato il timone del comando, che avremmo diretto addirittura un intero Paese. Forse mentiva. E forse lo faceva senza sapere di dire cose che non si sarebbero mai avverate. Quell’uomo aveva in testa un progetto, un’idea, pensava ad un pegno, una nobile contropartita, per i nostri sforzi. Sono passati 27 anni dal mio esame di maturità, e più di venti li ho trascorsi da insegnante nella scuola. In questo periodo la forza di quella promessa si è erosa, consumata. Ai miei studenti, quando sono in vena di paternali, dico che dovranno rimettere in moto l’Italia, ridare speranza alle generazioni che verranno, e trovare, per fare questo, quell’entusiasmo che non hanno, quella carica che sembrano non avere mai posseduto. Rispetto a quel mio vecchio preside, non ho meno da dare, ma meno da promettere.

Dico loro queste parole e mi accorgo che comunicare con loro non è facile. Non perché siano sordi, non perché non vogliano ascoltare, ma perché (questa è la mia sensazione) difettiamo di credibilità. Forse non dico cose tanto insolite e fuori luogo se confesso che sempre più frequentemente mi accade di provare la sensazione di un muro che si erge tra me e loro. Credetemi: sento di non essere l’insegnante peggiore del mondo, ma questa è una magra consolazione. È da tempo che cerco di muovermi nella scuola con quello sguardo prospettico che un filosofo a me caro, Jacques Derrida, raccomanda sempre quando si vuole veramente vedere ciò che ci sta davanti agli occhi. Dovremmo, in poche parole, essere capaci di vedere come veniamo visti. Solo in un secondo momento potremmo stabilire se la percezione che abbiamo degli altri (in questo caso, degli studenti) è corretta.

Ma come veniamo visti dagli studenti? E, quesito ineludibile, come vediamo noi gli studenti?
Prima di provare a dare risposta alle due domande, sviluppando e chiudendo così questa mia breve comunicazione, vorrei introdurre una nota di ottimismo che riscatti un incipit così carico di premesse negative. Lo farò, entrando nel merito di una questione che potrebbe trovare nella scuola una ideale cassa di risonanza.

II.


«
La società in cui viviamo è una società della comunicazione generalizzata, la società dei mass media»[2]. Sono, queste, parole di Gianni Vattimo. In effetti, nella nostra società ogni evento può prodigiosamente trasformarsi in una notizia. La notizia può fagocitare e prevaricare lo stesso evento. È la cifra della postmodernità, come direbbe Gianni Vattimo, che vede nell’avvento della società della comunicazione una delle cause più incisive della fine dell’idea di modernità. Il costante affinamento e il rapido moltiplicarsi delle tecnologie della comunicazione sono spesso per noi insegnanti causa di un certo disagio. Dobbiamo comunicare; per farlo, assumiamo ed esercitiamo determinati costumi retorici, e percepiamo una crescente inadeguatezza di fronte ai destinatari della nostra azione. Ciò non significa che i nostri ragazzi conoscano internet più di noi, che siano grandi intenditori dell’hi-tech solo perché hanno una certa pratica con facebook, myspace e, in generale, con i social network, luoghi del web in cui è possibile fondare consorterie virtuali. Ciò significa solo che la complessità del mondo della comunicazione è un fenomeno ancora in piena crescita, e che questo fenomeno è così invadente perché ha a che fare con quella che potremmo chiamare la società dello spettacolo globale. Ecco un piccolo paradosso: c’ingegniamo in mille modi per trasmettere il senso di una data e di un evento del passato; mentre sudiamo le proverbiali sette camicie per costruire una tavola cronologica dotata di senso e facile da ricordare, irrompe in aula, catapultata da un sms, la notizia (che può essere falsa, ma non per questo meno molesta e inquietante) della morte di una rockstar. Un fatto accaduto pochi istanti prima della sua pubblica ufficializzazione si fa breccia nella memoria e si sedimenta in essa, diventando notizia e spodestando la “storia”. Le insegne luminose hanno da tempo sostituito bussole, meridiane e cieli stellati. Senza l’insegna di una farmacia o di una pizzeria ci diventerebbe difficile orientarci. La sim del nostro cellulare è un surrogato della nostra memoria incontinente: un surrogato molto più affidabile. Sono pochi esempi che dicono molto della complessità di questo villaggio globale nel quale viviamo. Il nostro stile di vita va facendosi sempre più impersonale.
La scuola non può porci al riparo (sarebbe, d’altronde, una pretesa assurda e una reazione controproducente) dalla fascinazione che il nostro mondo e il nostro tempo sanno produrre. Bisognerebbe plasmare, costruire, una “scuola-comunità”, uno spazio della formazione meno impersonale. La complessità (era questo il nostro “problema”) può risolversi in trasparenza: la trasparenza sarebbe così “complessità semplificata”. Ad una “società trasparente” deve corrispondere una “scuola trasparente”. Una “società trasparente” è una società che si basa sulla pluralità e che fa di questa un principio normativo, un ideale di emancipazione[3]. Una scuola trasparente è allora una scuola che accoglie criticamente la complessità del mondo della comunicazione, una scuola che non si limita a predicare una sorta di censura e di condanna preventiva della tv (la “cattiva maestra” di cui parlava Popper) e dei media in generale. Nemmeno deve essere una scuola che s’illude di poter pagare il suo debito con l’alta tecnologia aumentando il numero dei pc nelle aule o informatizzando tutti i suoi servizi. Non è questo il tributo che pretende da noi, uomini di scuola, la avanzante società delle comunicazioni. Pretende – se così possiamo dire – che non la s’ignori e che la si consideri più come una risorsa che come una minaccia, per quanto potenzialmente destabilizzante sia il potere che dobbiamo riconoscerle[4].

III.


Un contributo alla scuola che cambia, e che cambia perché cambia il mondo, può essere perciò una nuova o maggiore sensibilità alle istanze di questa avanzante e ormai avvolgente società delle comunicazioni. Né noi, né i nostri studenti possiamo ignorare di esserne comunque parte. Veniamo, allora, all’annunciata questione delle visioni che studenti e insegnanti hanno gli uni degli altri. Molte delle considerazioni che vi propongo sono frutto di una pratica per così dire empirica.

Gli studenti percepiscono l’ansia, le attese mancate, le aspirazioni frustrate dei loro docenti. Sanno anche percepirne l’entusiasmo, la dedizione alla professione, la passione (se potessero, ci darebbero i voti; sono però convinto che i criteri e i principi della loro docimologia ci sfuggirebbero). C’è da chiedersi quale tra le due visioni del ruolo docente prevalga in loro.
Lo studente può percepire (e quando mostra indifferenza, questa è già una reazione significativa) il disagio crescente dell’insegnante, preso dall’ordinaria attività didattica, che, a dire il vero, di ordinario ha sempre meno. L’insegnante può venire rappresentato come un professionista perplesso, incerto e distratto dalle voci che circolano sulla scuola (quanti insegnanti non di ruolo e con tanti anni di servizio sul groppone s’interrogano oggi su quello che sarà di loro domani? Quanti insegnanti di ruolo fanno lezione con l’ansia nel cuore per la possibile perdita del posto e per le conseguenze che questo non trascurabile fatto comporterebbe?). Di questa scuola i ministri della Pubblica Istruzione degli ultimi 10, 15 anni si sono tutti più o meno proposti di ridisegnare i connotati, cambiandola da cima a fondo, con più o meno fortunati progetti di riforma. Noi insegnanti possiamo anche venire rappresentati come lavoratori non manuali (sapete quanti colleghi trovano inadeguato definire intellettuale il lavoro che facciamo, come se un insegnante non fosse in fin dei conti un intellettuale?), professionisti dell’istruzione (può andar bene così?) combattuti e divisi, se non addirittura poco solidali. Lo studente dovrà pur chiedersi perché mai ai tanti scioperi che vengono indetti a raffica e in ordine sparso gli insegnanti non diano, se non di rado, la loro adesione. Per quanto ingenua possa sembrare, questa loro considerazione fotografa un dato reale del nostro modo di vivere la scuola. Denunciamo l’aleatorietà dell’insieme di cui siamo parte e contribuiamo ad accentuarne la frammentarietà.
Sono solo pregiudizi? E se lo fossero, non dovremmo ugualmente tenerli in considerazione? Se qualcuno ha un’idea sbagliata sul mio conto (e sono certo che sia sbagliata e non corrispondente), non posso rassegnarmi e lasciar perdere. I pregiudizi (se tali li consideriamo) non si possono subire. Nella poiesi del pregiudizio non rientra solo l’azione di un emittente; l’efficacia di un pregiudizio deve molto all’arrendevolezza del suo destinatario: quanto più lo si accetta, tanto più si finisce con l’accreditarlo. Ma come correggere un pregiudizio di cui s’ignora l’esistenza? Ebbene, prima di rimboccarsi le maniche, bisognerebbe aguzzare la vista, tentare di “vedere come si viene visti”. Per noi, attori di uno spazio pubblico, è un’operazione fondamentale.
Sulla percezione della nostra figura professionale (ma anche umana e affettiva) influisce – ahinoi – la considerazione che le famiglie hanno dell’insegnante. Anello fragile di una catena educativa male annodata, la famiglia italiana non crede (non sembra credere) molto nella dignità e nell’importanza del ruolo che svolgiamo. Questo discredito, questa bassa considerazione, l’avvertiamo in modo netto. L’insegnante è considerato un privilegiato che si lamenta a torto del suo status professionale ed economico. La presa di posizione del mondo sindacale viene vista come una naturale e poco incisiva difesa d’ufficio. Abbiamo mille lagnanze per cui far sentire la voce, ma l’appeal che le nostre lotte possono avere sulla società civile è basso. Come cani di paglia, prima o poi potremmo far sentire le nostre campane e dare fuoco alla miccia. Insomma, chi non prende sul serio il nostro disagio e le nostre ragioni, chi non vuole intendere i mille campanelli d’allarme che ripetutamente suonano non solo sbaglia, ma è un irresponsabile.
Chiediamoci ora come vediamo noi gli studenti.

IV.


Raccontare e riassumere la galassia studentesca è un’impresa. Si rischia inevitabilmente di generalizzare e abusare di clichè e stereotipi. Si rischia di dire che gli studenti italiani, da Adria a Carbonia, da Ventimiglia a Enna, sono fatti tutti nello stesso modo e che a tutti si può ricondurre un comune modo di pensare e vivere l’esperienza scolastica. È un rischio di cui sono consapevole, ma che non posso non correre. Quindi, il ritratto che dello studente emergerà dalle parole che seguiranno potrebbe venire facilmente (fin troppo facilmente!) reso nullo o considerato infedele e inattendibile dalla vostra legittima contrarietà. Per questa ragione, agirò d’astuzia e cercherò di non rendere completo questo ritratto, di lasciarlo aperto e di montarlo con l’assemblaggio di tanti pezzi. Questo ritratto aspira ad essere la sintesi dei modi in cui l’insegnante tende a percepire la figura dello studente. L’una diventa inesplicabile senza il ricorso all’altra. Siamo, infatti, (sarà il caso di ribadirlo) all’interno di quella che James Hilmann chiama la “coppia archetipica Insegnante-Studente”.

Come vediamo allora i nostri studenti?
1. Giovani che non studiano mai troppo, mai quanto dovrebbero almeno, che ignorano le vere ragioni (la passione!!!) dello studio (ma da chi mai dovrebbero ereditare questo approccio alla conoscenza? Chi dovrebbe iniziarli al fascino del sapere?)
2. Ragazzi che non studiano affatto, amebiche espressioni di generazioni senza identità e con qualità che ci lasciano indifferenti
3. Camaleonti dello spirito, vittime privilegiate, arrendevoli, di tutti i cambiamenti; li vedi nelle aule tutti vestiti nello stesso modo, e non per fare tendenza o per introdurre una nuova moda, ma solo per occultarsi; sognatori mancati; hanno dei talenti, che sprecano o investono male; vivono di tv, reality-show, hanno nell’indice destro il callo da sms, sono schegge autistiche di questa nostra società che propone community virtuali per nascondere la solitudine; s’intrattengono con il cellulare per ingannare il tempo, forse fingendo di parlare a interlocutori che, a loro volta, fingono di ascoltare; fingono di essere grandi compagnoni e sono lupi solitari
4. Uno studente non può sapere in realtà come viene visto dal suo insegnante; l’insegnante sa invece di essere visto sempre in quel modo, in quel determinato modo, dentro quella determinata veste (un generico “Prof”, tutto sommato, suona non meno anonimo e distante di un “Cameriere, mi porti il conto”). Per i nostri studenti saremo dei prof sino alla fine, ma non perché la cosa ci contraddistingua; saremo prof sino alla fine perché difficilmente ci riconoscono un’immagine diversa; crediamo che non sappiano vederci per quello che realmente siamo, e dire che sfiliamo davanti ai loro occhi per così tanto tempo e per diversi anni di fila; ecco perché crediamo che una certa rigidità sia quasi connaturata al loro modo di vivere dentro la scuola; ci sembrano così inermi da figurare come dei piccoli soggetti apocalittici disintegrati (ordigni disinnescati)
5. Figli unici che vanno alla ricerca di un’ulteriore dose di coccole. Figli unici come i nostri
6. L’immagine negativa dello studente ingloba anche un giudizio di carattere politico che potrebbe far gridare ad una sorta di “tradimento generazionale”: la scuola dovrebbe proporre un progetto di rinnovamento della società? La società avrebbe dovuto farlo proprio? Le generazioni che avrebbero dovuto assecondare questo percorso hanno fallito? Queste generazioni di mancati riformatori sono i nostri studenti? Non sappiamo se diventeranno mai dei chierici in piena regola, ma hanno già tradito il loro compito. Il loro fallimento è anche il nostro, e per questo ci brucia di più.

Che cosa possiamo fare? Che cosa possiamo promettere? Due piccole risposte. Possiamo, innanzitutto, provare a vederci visti, a riconsiderare la nostra figura, a non perdere la passione che fa dell’insegnante (contrariamente a quanto altrove si dice) un professionista che ama il lavoro che fa. Nessuna novità, se criticamente vagliata, ci peserà più di tanto. Che cosa promettere, infine? Rilanciare l’idea (quello spot da Italia che crede in sé di cui il mio vecchio preside si sentiva tanto fiero) di una generazione chiamata ad assumere responsabilità da leadership. Occorrerebbe un patto tra generazioni che faccia della scuola un luogo di formazione civica, una finestra aperta e viva sul futuro. Chiudo con la proposta di un’idea che a molti sembrerà insolita, stravagante e fors’anche provocatoria: stabilire una soglia anagrafica che divida come uno spartiacque due mondi chiamati a collaborare: da una parte, i nostri giovani (chi ha meno di 40 anni, ad esempio), e dall’altra chi ha superato quella soglia. I secondi dovrebbero mettersi al servizio dei primi, favorendo una totale rigenerazione dei quadri dirigenziali di questo nostro Paese. Ai primi spetterebbe il rispetto del patto, dimostrandosene degni. Altra misura per spezzare l’ordine gerontocratico che struttura la macchina della società non ne conosco. Vi sembrerà esagerata, forse fuori luogo o poco realistica. Vi sembrerà una proposta drastica esattamente come il resto del mio intervento. Ma pensiamo davvero che ci sia ancora tempo per misure graduali e per interventi temperati? Delle tante riforme della scuola di cui si parla (e, in ultimo, quella del ministro Gelmini) non è stata forse anche l’arrendevolezza delle loro applicazioni a minarne la forza innovativa e la credibilità?

Note

[1] Cfr. James Hillman, Lettera agli insegnanti italiani, in www.edscuola.it/archivio/ped/hillman.htm.
[2] Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, p. 7.
[3] Cfr. G. Vattimo, Op. cit., p. 10.
[4] Una lettura interessante e in buona misura in linea con quanto stiamo sostenendo può essere il saggio di Pierre Lévy, Cyberdemocrazia: saggio di filosofia politica, Mimesis, Milano 2008.


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