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Rubrica bassa cucina
Storia di Piero
(Maria Elisa Muglia)
E’ possibile che in una città come Palermo si possa morire per mancanza di soccorso? E’ possibile che in una grande ospedale di una grande città, una persona venga dimenticata in sala di rianimazione? E’ possibile che un appartamento venga sigillato e a coloro che vivono lì venga impedito l’accesso perché per circa un milione di abitanti esiste un solo medico legale?
La storia che si va a raccontare è la storia di Piero, una storia di ordinaria follia italiana.
Accade a Palermo, e comincia una calda giornata d’agosto del 1997 per concludersi in un freddissimo gennaio 1999, mentre a Palermo si rivede la neve.
Ma andiamo con ordine. Nell’agosto del '97 a Palermo fa molto caldo. Di ritorno da un viaggio in nave, Piero, il protagonista della nostra storia, ha l’influenza. La notte sul ponte della nave è umida, si sa, ma c’è talmente tanta gente sulla nave Tirrenia Napoli-Palermo, che è meglio rifugiarsi sul ponte e fumare qualche sigaretta in attesa dell’alba.
Qualche sigaretta, sì, perché il nostro protagonista è un fumatore, e come tale ha tutti i problemi legati al fumo.
L’influenza infatti si complica in bronchite e la bronchite porta difficoltà respiratorie. Fa caldo a Palermo. Non si trova il medico di famiglia in pieno agosto, e la febbre sale. Si pensa così di andare all’ospedale, per avere una prima assistenza.
Al pronto soccorso si decide il ricovero. Non si sa mai con le complicazioni di una bronchite!
Piero rimane in ospedale, mentre si va a prendere il necessario per la sua permanenza in corsia.
Di ritorno dopo circa tre ore, Piero non è in corsia, ma in rianimazione, intubato, per un aggravarsi delle condizioni con il sopraggiungere di una broncopolmonite. Così viene detto ai familiari. “Il trasferimento in terapia intensiva è comunque cautelare, giusto per evitare sorprese e la respirazione assistita è solo un supporto in più, perché effettivamente non sarebbe stata necessaria.“ Che zelo!
La dottoressa di turno comunica che comunque sarà riportato in reparto al massimo entro 48 ore.
Ma non è così.
Due giorni dopo Piero è ancora in Rianimazione, intubato e perfettamente lucido e cosciente che guarda i suoi familiari attraverso un vetro e cerca di comunicare con loro scrivendo bigliettini.
Accanto a lui un altro lettino i cui occupanti cambiano in continuazione. Non sopravvivono mai più di 24 ore.
Così, uno dopo l’altro, Piero sempre lucido e perfettamente cosciente, vede morire accanto a sé uomini e donne, malati terminali e vittime di incidenti, giovani e anziani.
Piero ha fame e cerca di mangiare. Prova con una cassatina (pasta reale e ricotta) ma è intubato e riesce solo a scioglierla in bocca nonostante si attacchi al palato.
Piero si annoia. Vuole gli occhiali per leggere i giornali, la settimana enigmistica per svagarsi un po’, la penna e un block notes per scrivere i suoi pensieri. Vuole anche la radio, per sentire Radio Radicale e ogni tanto, perché no, anche un po’ di musica.
Nessuno degli infermieri della Rianimazione contesta nulla, e così, poco alla volta il letto di Piero, il suo comodino, si trasformano in un angolo privato, pieno di giornali, appunti, con la radio sempre accesa
Accanto a lui la gente continua a morire. Lui con gli occhiali inforcati legge i suoi giornali, ascoltando Radio Radicale, sempre intubato.
Passano i giorni e le settimane. Non si riesce a parlare con uno straccio di medico. Poi, a settembre, un medico comunica che su Piero sarà effettuata una tracheotomia. Si chiede perché. Rispondono che purtroppo i tentativi per estubarlo non hanno avuto esito, per cui, visto il lungo periodo di respirazione assistita si saranno sicuramente anche create delle aderenze alla trachea e l’unico modo per staccarlo dalla macchina è procedere alla tracheotomia.
Si chiede a Piero. Lui è sicuro di non essere mai stato estubato. E vuole che prima di effettuare la tracheotomia si faccia almeno un tentativo. Lo si dice ai medici. Loro sostengono che un individuo che passa 30 gg. in rianimazione non può avere la lucidità necessaria per ricordare le terapie alle quali è stato sottoposto. Si fa presente che si ci fida completamente di ciò che ha detto Piero e che si ha l’ intenzione di presentare un reclamo scritto alla Direzione Sanitaria. A quel punto i medici della Rianimazione dell’Ospedale decidono di mandare uno psicologo da Piero e fargli dei test per vedere se effettivamente e lucido e capace di intendere e di volere. Il test dà risultato positivo e i medici a questo punto non sanno più che fare. Intanto sono passati altri 10 giorni che sommati ai 30 precedenti fanno 40 giorni di Sala di Rianimazione, attaccato ad una macchina per respirare e perfettamente lucido.
Decisi a rivolgerci al tribunale per i Diritti del Malato, in quanto familiari, si fa confusione, si va dal Direttore Sanitario, si minaccia di far presente la cosa alla stampa.
Ancora una volta rispondono che la tracheotomia è l’unica via possibile anche perché nel reparto di Rianimazione non c’è momentaneamente un responsabile che possa prendere la decisione di procedere al tentativo di estubarlo.
Una follia!
Non c’è un medico che si prenda la responsabilità.
In via del tutto amichevole, viene suggerito ai familiari di trovare essi stessi un medico dell’ospedale che si prenda la responsabilità di accogliere il paziente nel suo reparto dopo l’estubazione, o in alternativa anche un medico di un altro degli ospedali palermitani, purché la Direzione Sanitaria dell’Ospedale venga sollevata da qualsiasi responsabilità.
Ci si attacca al telefono per chiamare tutti. Amici, conoscenti, amici di amici e finalmente viene fatto un nome. Il medico in questione, dopo aver avuto assicurazione da un amico comune che non lo si sarebbe comunque ritenuto responsabile di qualsivoglia accadimento negativo, prende l’impegno di recarsi in Sala Rianimazione per vedere che situazione c’è.
I familiari restano fuori con il cuore in tumulto. Quando esce, dopo aver visitato Piero, dice che il tentativo si può fare e che se ne assume lui stesso l’onere e che se tutto va bene, così come lui crede, poi lo porterà al suo reparto per farlo riprendere, visto che è molto debilitato per i 47 giorni trascorsi lì.
Si chiede quando sarà fatto il tentativo. Lui ci dice che non lo sa. Al più presto comunque.
La mattina dopo, quando tornando, in ospedale non trovano più Piero in rianimazione ma viene detto che l’hanno portato in reparto.
Arriviamo trafelate. Non ci pare vero. Lo vediamo seduto sul letto, senza più quel maledetto tubo che gli impedisce di parlare, succhiare un succo di frutta con una cannuccia.”
Parla con la voce un po’ roca, è magro da paura, ma finalmente è fuori da lì.
Passano diverse settimane e finalmente torna a casa. Ma non è più lo stesso.
In rianimazione ha preso diverse infezioni, una candida che aveva fatto addirittura disperare i medici di poterlo salvare. La funzionalità polmonare è compromessa. Si stanca facilmente, lo stress di quei 47 giorni da incubo si fa sentire.
Piero passa così tutto il 1998, cercando di riprendersi sia fisicamente che psicologicamente, ma è difficile.
Sempre più prostrato arriva il gennaio del 1999.
Piero ha di nuovo l’influenza e da circa un mese la bronchite. Non vuole vedere nessun medico. Non si fida più. E’ magrissimo e fa fatica a respirare. L’esperienza dell’ ospedale Cervello gli ha lasciato un’asma fastidiosa e un ispessimento della pleura.
E’ il 22 gennaio. Cinque giorni prima ha compiuto gli anni ricordando il compleanno dell’anno precedente ancora in ospedale.
Piero si è svegliato depresso. L’immagine di un ragazzo di vent’anni vittima di un incidente stradale, morto accanto a lui in quei giorni terribili. Il ricordo dello strazio dei parenti.
E’ proprio giù di morale. E’ stanco. Come se fosse stanco di vivere. L’asma va meglio, è vero, ma fa freddo, e ha paura di ammalarsi.
E’ solo in casa quando decide di andare in bagno e farsi la barba.
E’ solo in casa quando cade a terra battendo violentemente la testa sullo spigolo del bagno.
Poco dopo entra in casa sua sorella. Lo chiama. Lo cerca. Lo trova disteso in bagno in una pozza di sangue. Si precipita fuori, alla Asl. Si perché abita proprio a fianco della Unità Sanitaria Locale. Chiede aiuto. Le viene risposto che nessuno di loro è medico e non possono fare nulla tranne chiamare il 118. Così fanno.
Margherita, la sorella, si precipita di nuovo a casa e va da Piero. Gli parla. Lo rassicura. Lui non riesce a parlare, ma è chiaro che capisce tutto. Gli occhi sbarrati in cerca d’aiuto e la paura di tornare nuovamente in ospedale.
“Se dovessi sentirmi male, lasciatemi morire. Non chiamare l’ambulanza, Non ci torno lì” aveva detto qualche giorno prima ad amici e familiari.
Ma Margherita lo rassicura. Il 118 sta per arrivare. E’ quasi mezzogiorno, siamo al centro di Palermo, è gennaio. Non c’è niente che possa pensarsi difficoltoso.
Ma venti minuti dopo ancora nulla. Solo le dodici e mezza quando dalla Asl richiamano il 118. Viene detto che purtroppo la prima ambulanza ha avuto un guasto e si è dovuta fermare
Così si aspetta che arrivi una seconda ambulanza.
Passano i minuti, ma non arriva nessuno.
Finalmente alla Asl recuperano un medico che si trova a passare da lì. Sono quasi le tredici. Il medico entra in casa e visita velocemente Piero. Purtroppo è già troppo tardi. E’ morto.
Nel frattempo arriva la seconda ambulanza. Senza personale medico a bordo, ma solo con i portantini.
I familiari di Piero dicono loro che sono arrivati troppo tardi. Che Piero è morto aspettando che qualcuno lo soccorresse.
Quelli dell’ambulanza hanno paura di una denuncia o non si sa bene cosa e allora provvedono a chiamare i carabinieri dichiarando che in un appartamento c’è una persona morta in un lago di sangue e non se ne capisce il motivo.
Arrivano i carabinieri, fanno uscire i familiari dall’appartamento e non permettono a nessuno di avvicinarsi a Piero. Sono le 13,15. Si aspetta il medico legale per i rilievi del caso. Nessuno può più stare in casa. Solo Piero, lì disteso nel bagno. Solo. Ma ormai non ha più importanza.
Passano le ore.
I carabinieri ribadiscono che fintanto che non arriva il medico legale non si può far niente.
Continuano a passare le ore. E’ gennaio. Fa freddo. Dopo 17 anni di assenza si rivede la neve a Palermo. I familiari di Piero restano in strada senza nemmeno poter prendersi un cappotto.
Alle 19,30 un carabiniere riceve una chiamata dal comando. Comunicano che verranno a prendere la salma di Piero per portarla a Medicina Legale poiché il Medico Legale per impegni che si sono protratti non potrà essere sul posto.
A cosa sono servite tutte quelle ore in strada se nessuno farà nessun rilievo in casa?
Così intorno alle 20,15, arrivano, entrano, portano via il corpo. L’appartamento viene chiuso e i familiari portati in caserma per essere interrogati sull’accaduto.
Alle 22 sono ancora in caserma. Il carabiniere che deve verbalizzare ha un blocco al computer e non sa come procedere. Aspetta che un collega più esperto lo aiuti.
Alle 00,30, finalmente si può lasciare la caserma e tornare a casa.
Aprendo la porta un acre odore di sangue.
Nel bagno non si può entrare. Il freddo pungente e le ore che sono passate hanno solidificato il sangue e sembra impossibile poter restare lì. Arrivano gli amici. Si assumono l’onere di riportare l’appartamento ad uno stato vivibile.
Sono le tre del mattino quando finiscono di pulire il bagno.
Nei giorni successivi autopsia, funerale,denuncia alla magistratura… Una va e vieni dal tribunale, dallo studio dell’avvocato, dal cimitero.
Poi il referto ufficiale e la chiusura di ogni ma e perché.
Viene dichiarato che “…la morte è stata causata da un emorraggia polmonare … non c’è nessuna sicurezza che se anche i soccorsi fossero arrivati in tempo, il paziente avrebbe potuto sopravvivere poiché l’apparato respiratorio era in condizioni tali da non poter garantire una guarigione”.
Il che in parole povere significa che i danni lasciati dal ricovero all’ospedale erano tali da giustificare la mancanza di soccorso del 118.
Il magistrato archivia tutto e tutto finisce lì.
E la storia di Piero questa. Una storia di ordinaria follia italiana, di negligenza, di noncuranza, di nulla.
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