Il Tamburino Sardo


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tigre di carta

Rubrica Lastrico solare

Il comunismo è una tigre di carta
(Paolo Buzzanca)

Dei pochi paesi che ancora conservano un regime comunista, due si trovano al confine con la Cina: il Vietnam ed il Laos, ma in questi paesi di comunista non c’è altro se non il regime.

Se prendiamo il Vietnam, che è sicuramente una potenza regionale ed è in aperta concorrenza con la Tailandia per l’egemonia sull’area indocinese, c’è di negativo tutto ciò che non dovrebbe esserci: c’è un sottoproletariato spaventosamente numeroso, che affolla le città e vive di espedienti o si inventa lavori assolutamente incredibili. Per strada, alle prime luci del giorno, puoi incontrare una ragazza che trasporta con una mano fornello, carbone e pentola, mentre con l’altra sostiene una busta di cibo. Va ad occupare un angolo di marciapiede, nel centro di Hanoi, per impiantare il suo ristorante. Poco più in là due venditrici ambulanti litigano per uno spazio che non riescono a condividere. Non si accapigliano, non si spintonano, ma il tono è molto duro e ci sembra di capire che gli epiteti non sono gentili.

Già dall’alba, poi, un’infinita schiera di venditrice ambulanti ti offre tutto ciò che la povertà riesce a produrre: frittelle più o meno unte, piccoli oggetti di cui difficilmente si capisce l’uso. O il risciò. Per pochi dollari di portano in giro per la città, poco importa se siete in due. La fatica non li spaventa affatto. Su una giunca, nella baia di Halong, un cameriere lava i piedi dei passeggeri che rientrano da una spiaggia. Mi chiedo se questi sanno ancora che i loro genitori hanno dato la vita per combattere il capitalismo.

Gli stipendi e i salari, specialmente per chi non lavora alle dipendenze dello stato o negli apparati che contano, sono particolarmente bassi. Nel settore turistico si può lavorare per pochi dollari dalle sei del mattino alle dieci di sera e riesci a fare qualche soldo, il tanto per la sopravvivenza, solo se riesci a diventare imprenditore di te stesso vendendo ai clienti gite o pacchetti turistici di vario genere, sui quali poi magari riesci a lucrare, impaccando il cliente.
L’ambiente è un disastro. L’inquinamento è l’unica regola e questo è un problema di rilevanza mondiale, per in questa zona scorrono fiumi importantissimi, dalla salvaguardia dei quali dipende il futuro di buona parte dell’umanità.

L’acqua potabile è un lusso: chi può compra acqua purificata, ma chi non può, cioè la maggior parte della popolazione delle campagne, ricorre all’acqua lurida di fiumi, stagni o ruscelli, contribuendo involontariamente al loro ulteriore degrado. Le donne lavano in queste acque: lavano se stesse, lavano i loro bimbi e i loro panni. In Laos è norma lavarsi i denti con l’acqua del fiume, indipendentemente dalla sua limpidezza. Abbiamo visto persino uomini condividere la pozza d’acqua con i bufali.

La scuola, l’università in particolare, è carissima e occorre fare sacrifici su sacrifici per arrivare alla laurea. I sistemi di trasporto, le strade, le ferrovie, sono praticamente un disastro, anche se il regime prospetta, ed in parte magari realizza, miglioramenti strabilianti.
Un certo numero di mutilati ha trovato sistemazioni in imprese che promuovono l’artigianato locale ed hanno una chiara impronta di stato, ma per strada trovi mendicanti o incontri altri mutilati che si muovono su carrozzelle antidiluviane.

Tanti bambini per strada, a tutte le ore, ti danno l’idea che l’analfabetismo non è stato eliminato ed il turista può percepire fenomeni che ti fanno toccare con mano la durezza del regime. In un parco, in una bellissima zona di montagna, incontriamo un’area disboscata che non molto tempo fa doveva essere un fiorente bananeto. Un cartello si compiace di renderci noto che lì era insediata una comunità di etnia Mong, che il governo ha trasferito in altra zona.

In Laos la situazione è ancora peggio. Ti rendi subito conto che qui è tutto da fare. Strade, ponti, acquedotti, fognature, strutture di ogni genere. I bambini di una scuola, a ricreazione, nel Sipandon, vanno a prendere l’acqua nel Mekong. Ma in molti villaggi non ci sono nemmeno le scuole e l’istruzione è affidata alla buona volontà dei monaci, che sono numerosissimi. Monasteri buddisti sono in ogni angolo del paese e le loro feste sono frequentatissime, molto spesso si trasformano in vere e proprie feste paesane e bambini vi accorrono a frotte, perché è l’unica occasione per comprare qualche giocattolo. Di giocattoli poi se ne vedono pochissimi, e anche di vestiti per bambini se ne vedono pochi: qui i piccoli, spesso, girano nudi, anche se intorno a loro si percepiscono cure ed attenzioni di elevato livello. A scuola poi vanno pulitissimi, con la loro divisa impeccabile, tutti insieme, i piccoli bonzi in fila indiana e gli altri in sciami festosi.

In Laos esistono due tipi di prodotti, almeno nell’immaginario collettivo: quelli tailandesi – buoni – e quelli cinesi, scadenti, da non comprare, se possibile. E sullo scontro, tutto economico, fra vietnamiti e tailandesi, si gioca il futuro di questo paese. Le prospettive, dunque, in assenza di una politica più oculata da parte delle democrazie occidentali, non sono rosee.

Eppure, la gente non è infelice: non incontri una persona che non ti saluti con un sabaidì ed un sorriso; gente dignitosa, che non ti chiede nulla e non ti importuna per nessuna ragione, che ti fa entrare nelle sue case a palafitta, e non sempre per vendere le sete tessute al telaio nello spazio aperto fra i pilastri in teak della casa, accanto ad enormi giare che si riempiono e si svuotano d’acqua con ogni genere di contenitore.

Lo stato, più che duro, sembra assente. Sembra, perché probabilmente ha occhi molto attenti ed il turista, che pure è liberissimo di muoversi, lascia tracce evidenti del suo percorso nei moduli che compila per alberghi e trasporti. Non è detto che la polizia ti fermi per strada, o che ti controllino i bagagli all’aeroporto. Chi ha viaggiato nei paesi del socialismo reale ha ben altri ricordi.

Ma poi ti chiedi come è possibile che qui ci siano state repressioni tremende e se davvero uno è libero di pensare come vuole, di organizzarsi come vuole, e ti rendi conto che forse l’unico modo per vivere felice è non interessarsi di politica, farsi la propria vita, giorno per giorno, senza sindacati, senza garanzie, senza servizi, con i campi ancora minati, con una povertà davvero grande, seppur vissuta con dignità, lavorando duramente e guadagnando poco.

E ti chiedi se davvero l’unica tigre di carta mai esistita, che Mao identificava con il capitalismo, e l’unica rimasta al mondo, non sia questo comunismo di stato, non di vita, non di opinione, che si insedia come un corpo estraneo sulle strutture sociali e sulla cultura di questi paesi.

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