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Rubrica Biblioteca
TURATIANA
(Palmiro Togliatti -Ercoli) (« Lo Stato Operaio » - Parigi, aprile 1932).
In tutto quello che la stampa socialdemocratica ha pubblicato su Filippo Turati, sulla sua vita e le sue opere, e, particolarmente nella leggenda che essa mette in giro, secondo la quale Turati sarebbe il capo, il maestro, il messia del movimento operaio e della lotta di classe in Italia, vi è solamente questo di vero: che nella persona e nella attività di Turati si sommarono e toccarono una espressione completa tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo fecero deviare dagli obiettivi rivoluzionari del movimento operaio, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può ben essere presa per simbolo, e per un simbolo anche la sua fine. L'insegna sotto cui questa vita e questa fine possono essere poste è l'insegna del tradimento e del fallimento.
Tradimento degli interessi, delle aspirazioni degli ideali della classe del proletariato. Una vita intiera spesa per cercare di fare argine alla lotta di classe rivoluzionaria e al suo corso inesorabile, per tentar di porre un freno allo sviluppo della azione autonoma della classe operaia per la propria emancipazione. Una intiera vita politica spesa per servire i nemici di classe del proletariato, per servirli nel seno stesso del movimento operaio. È, alla fine, il benservito da parte dei borghesi nella forma della eliminazione della vita politica del paese, nella forma della violenza e dello scherno. Tutta la vita per dare scacco alla rivoluzione, per preservare l'ordine, la tranquillità, la pacifica esistenza del capitalismo e delle sue istituzioni, e, alla fine, la impotenza pietosa, querula, dell'esilio.
L'apparenza è quella di un destino tragico. La sostanza è quella di un fallimento. In realtà, se è vero che noi, Partito comunista, considerandoci gli eredi e i continuatori di tutto ciò che di sano e di vitale vi fu anche nelle correnti non rivoluzionarie del movimento operaio, possiamo trovare nella vita e nell'attività di alcuni tra i vecchi capi socialisti italiani dei motivi, degli elementi, di cui ci piace considerarci e di cui siamo continuatori, — è ben vero però che nella attività di Turati siffatti motivi ed elementi ci è impossibile trovarli.
Nella teoria Turati fu uno zero. Quel poco di marxismo contraffatto che si trova nei primi anni della « Critica Sociale » non fu dovuto a lui. Dei vecchi capi riformisti egli fu il più lontano dal marxismo, più lontano persine di Camillo Prampolini. Questa lontananza dal marxismo appare inoltre molto più evidente in lui che negli altri, che avevano meno pretese. Nemmeno è esatto dire che egli sia stato un marxista revisionista, perché nei revisionisti vi era stata, almeno inizialmente, una certa adesione al marxismo, che in lui non vi fu mai, e perché buona parte dei revisionisti, per arrivare a dare delle interpretazioni aberranti del pensiero scientifico e politico di Carlo Marx, ne avevano almeno studiate le opere, cosa che è discutibile se Turati avesse mai fatto.
Del marxismo egli ignorò sempre la precisione dei concetti e del linguaggio, il rigore dei ragionamenti, l'intransigenza ideologica. Nei suoi scritti e nei suoi discorsi è difficilissimo trovare un concetto del marxismo il quale non sia tarpato, snaturato, deturpato da ogni sorta di limitazioni, di contaminazioni con ideologie opposte e nemiche, di critiche aperte e nascoste, di fioretti e stupidità letterarie. Il suo stile stesso, dove cerca di avvicinarsi alla semplicità lapidaria e alla densità di pensiero dello stile di Marx, riesce una parodia dell'originale.
Le famose frasi lapidarie di Filippo Turati, quelle con le quali egli si fece fortuna nei congressi socialisti, davanti a quel pubblico di brava gente ignara e di birbe e di furbi matricolati, sono dei motti di spirito non sempre geniali, delle cose senza senso. Dei suoi famosi discorsi, il miglior giudizio venne dato, in forma molto popolare ed incisiva, da Costanze Lazzari al Congresso del partito socialista, a Milano, nel 1921: «C'è dentro un caos tale, che si resta sbalorditi». Intellettualmente la miglior cosa che si possa dire di Turati è che egli fu un intellettuale italiano di media statura, con i difetti marcati di questa categoria. Un rétore sentimentale, tinto di scetticismo, e per questo, nelle apparenze, un ribelle. Il brutto è che egli non voleva fare della letteratura, ma della politica.
Il punto di partenza dell'attività politica di Turati deve essere cercato nella incomprensione e negazione della parte che spettava e spetta al proletariato nella società capitalistica italiana, come forza motrice e dirigente della rivoluzione. Il punto di partenza, cioè, è nettamente opposto al marxismo. Il vecchio Federico Engels, in alcune cose scritte negli ultimi anni della sua vita, avvertiva e denunciava l'errore e ammoniva che la rivoluzione italiana non poteva essere che una rivoluzione proletaria e socialista, radicale, nel senso che Marx dava a quella parola.
Per Turati e per la «Critica Sociale» la questione non si pose mai così, ma si pose sempre solamente nel senso di una trasformazione delle istituzioni politiche borghesi, di una attenuazione delle più flagranti ingiustizie sociali, di una maggiore libertà ed equità, e di una eliminazione, per questa via, dei contrasti di classe. Il programma di una borghesia illuminata. Lo spirito che animava Turati nella lotta contro la oppressione e la ingiustizia sociale appare anzi persino come uno spirito conservatore, come lo spirito di chi vuole far sparire le ingiustizie sociali, perché vede che da esse finirà per sorgere, per la reazione delle masse, un moto rivoluzionario, il sovvertimento dell'ordine.
Nei suoi discorsi al Parlamento le affermazioni in questo senso ritornano ad ogni occasione un po' grave. La crmiinosa vanteria di D'Aragona, quando contestava ai fascisti e voleva attribuito a sé stesso ed ai suoi compari il merito di avere spezzato le reni al movimento rivoluzionario delle masse, aveva avuto in Turati, sin dal 1901, un precursore. Non solo, ma non è difficile trovare, in qualche suo intervento parlamentare l'invito ai governanti a tener conto della «sua» opinione, come di quella di chi è solo a sapere come si difende l'ordine pubblico e a volerne una difesa efficace.
In questi discorsi affiora la consapevolezza di essere, nelle file del movimento operaio, l'agente di un'altra causa, della causa dell'ordine borghese e capitalistico contro l'assalto inconsapevole ma radicale della rivolta proletaria. Nel dopoguerra fecero scandalo le dieci lire date a un ferroviere crumiro. Le masse proletarie che in quel periodo avevano raggiunto uno dei gradi più alti della loro coscienza di classe, furono percorse da un fremito di sdegno. Ma non è necessaria una grande acutezza di analisi per scorgere che quell'atto era coerente con tutto il passato di Turati, che sempre vi era stata in lui, quella separazione, quella condanna, quel dispetto, mescolato di compatimento altezzoso, per il movimento offensivo delle masse lavoratrici, che il suo atteggiamento verso questo movimento era uguale in sostanza a quello che avrebbe potuto avere un borghese non del tutto cieco, umanitario e previdente.
Se qualche volta nei suoi discorsi e nei suoi atti, appare una nota sovversiva l'appello alla forza delle masse o la giustificazione dell'intervento di essa, non vi è dubbio che si tratta sempre, esclusivamente, di difendere, facendo intervenire la forza dei lavoratori, la legalità borghese, la legge fatta dai capitalisti e da essi stessi calpestata. Il sovversivismo di Turati non andava più in là. «Lo sciopero legalitario» del 1922 fu, in questo campo, l'ultima sua trovata.
La forza e la violenza autonome, offensive, della classe operaia e della rivoluzione proletaria egli non solo le condannò sempre, ma non poteva comprenderle. Organicamente egli era un controrivoluzionario, un nemico aperto della rivoluzione. Il movimento operaio, la forza delle masse lavoratrici, non erano per lui niente più che strumenti al servizio di una forza e di un programma che non erano quelli della classe operaia, ma di una borghesia riformatrice. Il contrario, dunque, di una concezione e di una politica marxiste.
Antimarxista fu la politica di Filippo Turati sin dall'inizio, sin dal periodo della costituzione del partito socialista, sin dal 1898. L'ondata rivoluzionaria che scosse l'Italia tra il 1890 e il 1900 egli non la comprese come la tappa iniziale di un moto rivoluzionario socialista, diretto dal proletariato al rovesciamento dello Stato borghese, ma come l'episodio di un movimento antireazionario diretto dalla borghesia e dalla piccola borghesia liberali. Dei moti siciliani non solo non vide l'importanza, ma espresse ripugnanza e diffidenza per questa vigorosa spinta rivoluzionaria, che si produsse secondo quella che avrebbe dovuto essere e che sarà la grande linea di sviluppo della rivoluzione proletaria italiana, secondo la linea dell'alleanza rivoluzionaria del proletariato con le masse contadine per l'abbattimento dell'ordine capitalistico, per il sovvertimento dello stato unitario borghese sin dalle sue fondamenta.
La politica di Turati, portando il proletariato a mettersi al seguito dei borghesi e piccolo borghesi liberali, concludeva non a sovvertire, ma a rafforzare lo Stato unitario borghese dandogli una base nelle organizzazioni di massa dei lavoratori. Il programma di Turati era il programma giolittiano e fu realizzato, in tutto ciò che aveva di realizzabile, precisamente da Giovanni Giolitti, tra il 1900 e il 1902, sulla base di una prosperità economica del paese. Filippo Turati fu il completamento indispensabile del giolittismo e di tutte le sue brutture. Per questo si deve dire che la funzione di Turati, nella vita del Partito socialista italiano, fu negativa, fu esiziale alle sorti del movimento operaio del nostro paese. Dal '90 al '900 le sue posizioni aberranti finirono per soffocare i germi sani che vi erano allora nel movimento operaio, quei germi che, sviluppandosi, avrebbero potuto portare alla creazione di un partito politico del proletariato.
Il Partito socialista non fu mai un «partito proletario». Esso fu, genericamente, un partito di lavoratori, diretto ideologicamente dalla piccola borghesia di città, influenzato politicamente dalla borghesia. La forza del movimento socialista italiano non stette né in Turati, né negli altri capi del suo stampo, ma nella spinta profonda e radicalmente sovversiva delle masse operaie e contadine, nella loro forza di resistenza, nell'opera oscura e tenace di centinaia di migliaia di capilega, di segretari di sezione, di propagandisti e organizzatori sconosciuti. Questa spinta che oggi, in condizioni così diverse, viene verso il nostro Partito, trenta e venti anni fa andava verso il Partito socialista. Ma Filippo Turati e i suoi non fecero quello che era necessario per liberare questa spinta delle masse dal suo primitivismo, per renderla consapevole di se stessa e dei propri obbiettivi rivoluzionari, non la diressero verso la rivoluzione, ma fecero tutto quanto era loro possibile per tenerla incatenata.
Dal 1900 in poi la storia del movimento operaio italiano è tutta un seguito di tentativi per rompere queste catene. Ma Turati sapeva l'arte sottile di non farsi battere, e, anche battuto formalmente, di continuare a influenzare in modo deciso e a dirigere tutto il movimento. Lo aiutò il fatto che tra i suoi avversari, vi furono dei ciarlatani, come Enrico Ferri e Arturo Labriola, vi furono dei predestinati al tradimento, come Mussolini e buona parte dei sindacalisti — ma non vi furono dei marxisti.
E qui bisogna sfatare un'altra leggenda, quella di Turati onesto, diritto, sincero e così via. Turati fu tra i più disonesti dei capi riformisti, perché fu tra i più corrotti dal parlamentarismo e dall'opportunismo. La sua attività fu un veicolo continuo di corruzione parlamentare nelle file del movimento operaio. Il suo metodo di mantenersi alla testa del partito era quello della corruzione. Tutte le risorse del parlamentarismo e dell'opportunismo vennero da lui adoperate per rimanere, di fatto, a capo del Partito socialista e del movimento operaio italiano anche quando la grande massa non solo degli iscritti, ma dei lavoratori senza partito era contro di lui e spingeva il partito in un'altra direzione.
La sua abilità di parlamentare incarognito si piegò alle distinzioni più sottili, alle più perfide soluzioni di compromesso. Per la rivoluzione russa egli non sentì e non manifestò mai un palpito di entusiasmo sincero. Nutrì verso di essa l'acida ostilità di un reazionario. Malgrado ciò accettò l'adesione alla III Internazionale, nel 1919, e persino a Livorno nel 1921. Si disse che in questo modo Turati dimostrava attaccamento alla classe operaia e al Partito socialista. In realtà egli dava alle masse un esempio flagrante di immoralità e corruzione politica.
L'adesione alla III Internazionale non poteva essere altro, per lui, che un espediente per ingannare ancora una volta i lavoratori. Più di Serrati egli fu responsabile di quel falso unitarismo che nascondeva tante menzogne e fu origine di tanta impotenza. Serrati era unitario per uno sciocco sentimentalismo. Turati lo era per astuzia, per calcolo opportunista, allo scopo di poter continuare a paralizzare ogni azione dei rivoluzionari. Lo era anche perché gli mancavano le qualità e le capacità di un uomo di Stato.
Il suo campo d'azione preferito fu il Parlamento, dove, dicono, sapesse muoversi con grande abilità. Ma altro è un conoscitore della psicologia e delle procedure di una assemblea parlamentare, altro è un uomo di Stato. Il suo famoso programma del dopoguerra non era né un programma di governo, né un programma di rivoluzione. La capacità di comprendere e di scegliere il momento per una azione politica decisa che non si riducesse ad un discorso o a un espediente di procedura, Turati non l'ebbe. La sua andata al Quirinale avvenne con venti anni di ritardo, quando il posto gli era stato preso, ormai, dai fascisti, e l'atto non poteva più fruttargli altro che scherno generale. La borghesia per conto della quale egli aveva fatto il poliziotto, il crumiro e predicato la viltà, non aveva più altro da dargli che il calcio dell'asino.
L'ultimo episodio di politica turatiana fu l'Aventino, e fu, esso pure, tradimento e fallimento. Rifugiato all'estero, il suo atteggiamento e i suoi scritti erano diventati cose miserande, esercitazioni letterarie, vuote, tronfie e ridicole. Era tagliato fuori del tutto dalla comprensione della situazione presente, rimasticava i luoghi comuni della mistica democratica e la sua ostilità alla Rivoluzione russa, aspettava, — ma non era in grado di fare altro — che gli si offrisse nuovamente il destro di rendere servizio attivo, in prima linea, per la causa dell'ordine.
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